Guarda Napoli e poi muori
Come recita il famoso detto (che si chiama “detto” proprio perché qualcuno l’avrà pur detto prima o poi, altrimenti non sarebbe “detto” bensì “ancora da dire”) “ogni scarrafone è bello a mamma soja“. Perché questa empirica premessa? Vengo e mi spiego: come da nessun’altra parte in Italia, a Napoli si riesce a fare promozione locale oltre ogni limite, oltre ogni verità oggettiva, oltre ogni “i gusti son gusti“. Tanto che il meid in Neipols va oltre la necessità di un riconoscimento internazionale della qualità dei suoi prodotti. Lì basta che si “riconoscano” tra di loro ed è fatta! Perché loro hanno la migliore pizza, il miglior caffè, i migliori “friarielli e casatielli” (che sono i migliori specie perché esistono solo là e la ricetta è più segreta di quella della Coca Cola), le migliori sfogliatelle, il miglior mare, la migliore pastiera, il miglior calcio giocato (ma anche il miglior calcio in compresse per i problemi di osteoporosi), la migliore caprese, i migliori babà, i migliori Gigi D’Alessi (che non si capisce perché vadano fieri di questo primato), le migliori ricotte, le migliori mozzarelle di bufala e, di conseguenza, pure le migliori bufale (e che ognuno intenda come meglio gli par d’intendere).
C’è da dire che Napoli ha anche i migliori consolati ucraini, che rilasciano i migliori permessi di soggiorno per le migliori badanti delle migliori nonne.
Dunque da nipote responsabile (potenzialmente migliore nipote se solo avessi la residenza partenopea) andai a Napoli per risolvere delle questioni burocratiche al consolato di cui sopra (che si chiamano consolati proprio perché dopo tutti i documenti, i tempi biblici, le fotocopie, i rinvii, le marche da bollo, i “mi spiace non è questo l’ufficio giusto si rivolga all’omino in fondo“, i controlli incrociati, i passaporti scaduti, i consigli della donna allo sportello, gli indirizzi non combacianti, le pause pranzo degli impiegati, la richiesta di ferie e le attese nei corridoi, rimani lieto e, appunto, “consolato” di non dover lavorare lì e, soprattutto, ti scopri verosimilmente felice della tua disoccupazione a tempo indeterminato ma ben organizzata).
Ma in tutto questo la cosa che maggiormente caratterizza Napoli è, inevitabilmente, il napoletano, sia l’autoctono che l’oriundo, specie se siciliano. Quindi per delle conseguenti ovvietà che non sto qui a sottolineare, a Napoli ci sono anche i migliori amici. Quelli che hanno il miglior lavoro e il miglior capo che passa per l’ispezione proprio all’ora che arrivi tu. Ma essendo i migliori amici riescono comunque a trovare le migliori soluzioni per liberarsi dai migliori impegni e raggiungerti.
Ed ecco Paolo. Ed ecco Massimiliano. Li vedevo per la seconda volta in realtà. E la prima volta erano stanchi e sudati. E quindi obiettivamente erano il migliori Paolo e Massimiliano che avessi mai visto.
«Annalisa non c’interessa niente, ora che sei qui devi venire a mangiare la pizza con noi. Ti portiamo nella migliore pizzeria di Napoli…»
La migliore? Iniziai ad avere strane, improvvise, ripetute e involontarie contrazioni al volto, tanto che i migliori Paolo e Massimiliano credettero si trattasse di scomposti sorrisi frutto della mia incontinente gioia. Erano in realtà spasmi ansiogeni ai muscoli facciali che con ritmo sincopato rincorrevano il “no” che avrei voluto pronunciare ma che si era (molto più terrorizzato di me!) abilmente nascosto negl’interstizi dentali, facendo la spola tra mascella volitiva e palato molle.
«Ok mi fermo – replicai con molta nonscialans e finta imperturbabilità – ma ho solo un’ora di tempo, poi devo prendere il miglior treno che mi porti alla migliore Roma».
E sì che i migliori Paolo e Massimiliano mi guardarono un po’ perplessi, ma in realtà essere i migliori amici comporta anche essere discreti e, contestualmente, accondiscendenti.
E un’ora passò (lenta) a fare la migliore fila (lenta) davanti alla migliore pizzeria (lenta), tanto che addirittura percepì sulla mia pelle le prime avvisaglie del soffice muschio che copiosamente avvolge la generale immobilità (ma era il due luglio e devo dire che non ci badai, anche per non dare troppo nell’occhio). Mi resi conto, ad un certo punto, di non aver fatto i conti con la presenza dei migliori Paolo e Massimiliano in entusiastica tenuta promozionale per la diffusione del prodotto tipico. Mancavano solo dieci minuti alla partenza del treno, dovevamo ancora ordinare e loro, serafici come i putti dei noti quadri celestiali, mi risolsero l’ansia con un laconico: «e che ci vuole? mangiamo e ce ne andiamo. La stazione è qua dietro, in dieci minuti ci sei!» (ah! Quasi dimenticavo: a Napoli hanno anche il migliore concetto di relatività del tempo).
Io non sono di Napoli però, quindi non sono una migliore amica. Ma cerco di rimanere sempre una persona educata. Ritenni di non replicare nulla. Mi considerai sconfitta. Loro erano in due e la giornata internazionale contro la violenza sulle donne era ancora lontana. In più ero esausta. Il miglior consolato delle migliori badanti delle migliori nonne mi aveva sfiancata (devo anche aver imparato la lingua nel frattempo, ché ad un certo punto iniziai a tradurre alla badante quello che la sua connazionale allo sportello le diceva. Ma dev’essere stata una cosa spontanea gestita dal sistema nervoso simpatico che, evidentemente, non aveva fatto tanta fatica con l’improbabile lingua straniera quanto con i miei migliori commensali, ai quali non accennava a dar confidenza né dal punto di vista del sistema nervoso – si autoproteggeva – né dal punto di vista della simpatia).
Il momento arrivò e finalmente assaggiai nientepopodimenoché la migliore pizza di Napoli. Eccola!… Devo dire, a onor del vero, che a me (profana e blasfema) non piacque molto, perché la pizza rossa non mi piace. Ma non per scelta etica di salvaguardia del pomodoro di San Marzano, semplicemente non mi piace. Ma solo rossa potevo prenderla, sia perché “la vera pizza rossa è!” (e ci mancherebbe pure che stai lì a far valere le tue ragioni), sia perché altrimenti quelli si sarebbero prima stizziti, poi avrebbero ipotizzato, guardandomi con disprezzo, un trattamento sanitario obbligatorio che mi facesse rinsavire, e infine comunque sempre rossa me l’avrebbero portata. Perché la migliore pizza si mangia come dicono loro! Quindi a quel punto ben credetti di saltare il passaggio dello stizzimento con internamento annesso, se non altro per risparmiare tempo e prendere, il prima possibile, il sempre più agognato treno. Pazienza. Quel che era stato era stato. Aspettai di pagare il miglior conto e di ripartire.
Arrivati alla stazione accadde una cosa che mi rese perplessa assai: un velo di mestizia cadde sul volto dei migliori Paolo e Massimiliano.
Paolo: «no, mio Dio no. No e no!»
Cosa mai potesse essergli successo mi era ignoto, non avevo visto nulla di anomalo, nessuno che gli avesse fatto l’occhiolino, nessuno che gli avesse offerto una caramella.
Io: «cos’hai, migliore Paolo?»
Paolo: «il treno è partito»
Io: «e vabbè, ma se arriviamo con venti minuti di ritardo è chiaro che è partito, perché te la prendi così?»
Massimiliano: « “E vabbè” niente! Noi si faceva affidamento sul puntuale ritardo anche del treno. Vedi tu! Questo è un affare infido e sospetto: è partito puntuale. Ma quando mai? Non è da FS, ci rimango troppo male…»
Ebbi come un insopprimibile istinto caprino di dar testate a tutte le gengive che mi venivano a tiro, ma poi pensai ai miei corsi di yoga, mai fatti perché inutili, e iniziai ad auto-convincermi che la soluzione più saggia sarebbe stata quella di mantenere la calma. Per gestire la foga iniziai, addirittura, a pensare all’invidiabile aplomb del Dalai Lama. Non l’avessi mai fatto! Appena focalizzai “lama”, l’istinto caprino si trasformò immediatamente in “istinto ruminante” che però, con altrettanto aplomb, controllai nel migliore dei modi. E controllai nel migliore dei modi solo perché ero a Napoli, sennò chissà che succedeva.
Poi il migliore Paolo, vinto dall’abbattimento e dallo sconforto per il tradimento di Trenitalia (e forse intuendo il crimine che mi si stava scatenando dentro), risoluto disse: «forse è meglio che torni al lavoro».
Bene, almeno mi affrancavo da uno (il lavoro salva e questa è una verità!).
Poi il miglior Massimiliano (temerario e ignaro dell’insardevole ira) disse: «forse è meglio che stia con la Insardà fino al prossimo treno» (lui disse “forse è meglio che sto con la Insardà”, io però non ho avuto il coraggio di scriverlo. Ma non è che Massimiliano non conosca il congiutivo, anzi… solo ha paura di usarne tanti al giorno sennò poi li finisce. Quindi quando è fuori servizio ottimizza).
Poi il miglior Massimiliano disse: «nell’attesa ti porto a prendere il migliore caffè di Napoli», e lì ebbi come un brivido che mi paralizzò per un istante il flusso sanguigno: anarchicamente decise di smettere di irrorarmi le membra, ché tanto sarebbe stato inutile vivere in quelle condizioni. Lo convinsi che ce ne saremmo andati presto e rispese di botto a circolare ma non senza un’extrasistole di avvertimento. Il tempo a mia disposizione stava per scadere.
Poi il miglior Massimiliano disse: «è qui vicino, ce la facciamo: beviamo il caffè e torniamo in fretta così riesci a prendere il prossimo treno» .
Ebbene: andammo al miglior bar e tornammo in stazione… ovviamente in ritardo.
Teoricamente, quindi, treno perso per la seconda volta.
Teoricamente però! Praticamente invece no, perché questa volta il treno era puntualmente (e giustamente aggiungerei) più in ritardo di noi.
E finalmente partii, riflettendo a piene sinapsi, e con sopraggiunta leggerezza (la migliore che avessi mai provato) sull’estenuante giornata. Ne ero sempre più convinta: in fondo tutto è bene… ciò che finisce! Ed era finita! Capisciammè!