Zoosafari di Fasano, bello ma….
Solitamente non amo gli zoo. Anzi, li detesto proprio. Ma chiamiamo le cose col loro nome, fosse per me potrebbero pure chiudere. Lo zoosafari no, quello è diverso. Almeno era quello che pensavo fino a ora. Quella di quest’anno è stata per me la terza visita allo zoosafari di Fasano. Ogni anno passo 15 giorni in Salento dai suoceri e approfitto per vedere le bellezze della Puglia. Quest’anno abbiamo deciso di portare il bambino, come l’anno scorso del resto, ma ora è più grande e ci piaceva l’idea che potesse vedere gli animali quasi liberi.
Ecco, è il quasi che mi ha fregata. Si, perché a quel quasi non avevo mai dato troppa importanza. Stavolta però, vuoi perché ero alla terza esperienza, vuoi perché ho osservato più attentamente, ho colto cose che le altre due volte mi erano sfuggite.
Anche quest’anno faceva un caldo bestia. Il cielo era coperto e l’aria praticamente irrespirabile: poco male, basta accendere l’aria condizionata in macchina e si ovvia al problema. Il nostro. Quello degli orsi resta. Ma procediamo con ordine. Arriviamo all’ingresso e varcata la soglia della biglietteria mi sembra di essere nel bel mezzo del grande raccordo anulare di venerdì alle 19. I rangers ci dispongono su due file, in mezzo pascolano mufloni e daini rassegnati, che sbirciano all’interno degli abitacoli in cerca di cibo. Hanno lo sguardo stupido e il pelo disperato. Mio figlio è entusiasta, si sporge dal finestrino per dare loro qualche tozzo di pane. Mi sorge un dubbio; ma questi animali non sono erbivori? Il cervello si rifiuta di elaborare i dati, fa troppo caldo.
Quale safari? Meglio definirle gabbie con giardino. Questo è lo zoosafari di Fasano secondo me.
Arriviamo al settore degli orsi dal collare. Gli alberi sono protetti da un cilindro di legno liscio, per non farli arrampicare. E’ un settore con pochi e spauriti ulivi impolverati. Sotto uno dei più grossi, radunati nella poca ombra, mamma orsa pranza con i suoi orsetti. Immediatamente provo empatia per quella mamma che cerca di proteggere i suoi cuccioli e il mio pensiero, chissà perché, va alle mamme nei lager nazisti, rinchiuse con i loro piccoli dietro una rete metallica. Sto iniziando a stare davvero male. Osservo, sorrido, ma ora mi sembra tutto un immenso teatrino messo su per l’uomo, dove l’animale di libertà ne vede ben poca. Quale safari? Meglio definirle gabbie con giardino. Questo è lo zoosafari di Fasano secondo me.
Non voglio certo rompere l’incanto del mio bambino, la felicità e l’innocenza con la quale si rapporta a gigantesche giraffe o a zebre curiose, ma non è questo che voglio insegnargli. Voglio che sappia che tutti dovrebbero vivere al meglio, uomini e animali. Voglio che conosca il rispetto, non la prostrazione di chi è vinto da un essere più forte. Arriviamo alla fine del percorso. Matteo ride e saluta un grosso cammello sdentato. Ha le gobbe mosce e penzolanti. Cammina lento, con lo sguardo vago. Scruta dentro l’auto e snobba il pane: forse i visitatori precedenti lo hanno già rimpinzato ben bene. Volevo un’esperienza unica per mio figlio e non posso negare che il suo entusiasmo ci abbia fatto tanto ridere, ma la mia coscienza è sporca, sporca di Co2 e polvere rossa.