Migranti: una ricchezza che non vogliamo vedere
Mi sono avvicinata al mondo dei richiedenti asilo e dei rifugiati pensando di trovarmi di fronte a casi umani, storie alle quali avvicinarsi con le pinze, persone da consolare. Un lavoro quasi unicamente umanitario, insomma.
Ho trovato ragazzi che, a qualche anno meno di me, hanno girato quattro cinque paesi in condizioni ai limiti del vivibile, hanno cercato lavoro in ogni paese in cui hanno messo piede, si sono cercati il modo migliore di vivere nel peggiore degli ambienti. E sono arrivati nella bella Italia, dove ragazzi più grandi di loro vivono con i genitori e non sono in grado, spesso, di preparare un caffè e una frittata.
È in quel momento che ho capito che i migranti vanno accolti non (solo) per pietà, per spirito umanitario, per misericordia, non mossi a compassione. I migranti li dovremmo accogliere (anche) perché sono dei punti interrogativi itineranti, dei potenziali-tutto, ragazzi e ragazze per i quali, dopo aver percorso il periplo del Mediterraneo – o di qualsiasi altra parte di mondo – , vivere in Italia, lavorare, costruirsi un percorso di vita ordinaria e discretamente agiata è l’ultima delle difficoltà. A patto che li si aiuti, a patto che gli si dia il via. E gli SPRAR, sportelli di protezione per i rifugiati e richiedenti asilo, fanno proprio questo, inserendo i singoli in una comunità e poi, piano piano, in un lento percorso di autonomia. C’è tanto parlare riguardo i costi del migrante, ma non si pensa mai abbastanza a quanto l’Italia ne potrebbe trarre in termini umani, sociali, economici, culturali.
Si può opinare che quei migranti non resteranno a lungo in Italia, che contribuiranno soltanto in maniera momentanea all’ipotesi del suo miglioramento, con ogni probabilità. Rispondo che lo faranno probabilmente perché, se sognano tutti la Svezia, la Norvegia, forse noi italiani abbiamo qualche domanda da porci. Eppure siamo presi dalla fuga, anche noi. Convinti che la nostra fuga sia più degna soltanto perché sappiamo che non moriremo nel viaggio e che se non sappiamo cucinare la frittata un baldo Ronald MacDonald ci passerà un panino plasticato per un euro.
Pensavo di trovare persone potenzialmente pericolose, pensavo che sarei stata l’eroina che sfida il pericolo dell’uomonero, dell’uomo che tanto male ha subìto e però tanto male a volte restituisce. Ho trovato tanto conferme, quanto smentite. Ho trovato chi come un bimbo si offende per niente, durante la lezione di italiano rifiuta la lingua e non vuole più parlare, guarda il cellulare, si allontana. Ma ho trovato anche chi mi offre puntualmente uva del mercato alla fermata dell’autobus che entrambi aspettiamo per arrivare alla sede dove io sarò insegnante ed il ragazzo che ho affianco, studente. Ho sentito badanti russe parlare della “morte di mia nonna”, mi sono stupita e solo dopo ho capito che non c’era legame sanguigno ma era un appellativo per l’anziana che curava – ho evitato in corner di farle le condoglianze più sentite. Ho appurato che le accuse di stregoneria, i santoni, il sogno di allontanare ogni Male con violenze quasi animali esiste ancora. Che la nascita di un bambino può salvare la vita. Ho visto un ragazzetto preciso, ritto come una i, l’ho sempre collegato mentalmente all’immagine di un piccolo maggiordomo. E poi ho scoperto che lo era davvero: maggiordomo fuggito dal suo paese e da una testa insanguinata troncata da un corpo bambino per semplice sfoggio di potere, vizio effimero del suo capo. E poi ho scoperto che quella bimba la conosceva, il maggiordomo che sembra una i. Quella notte non ho dormito, pensavo ossessivamente alla scia di sangue lasciata dalla testa bambina.
Ma all’arrivo dell’alba si ricomincia da capo: i loro volti perlopiù sorridenti di sorrisi esortati da cure farmacologiche, le loro domande curiose, i loro errori buffi – “dottoresso” per dire dottore, ed io che sorrido perché un maschile estrapolato dal femminile è una grande vittoria.
Che significa “elevare”? E “appendere”? “Impiegare”?
Ma dove le trovi tutte queste parole? Te le fanno usare a lezione?
No: la tv. Ieri ho visto un film. Prendo un quaderno e mi scrivo tutte le parole che non capisco. Un po’ le capisco, nel film, ma voglio capire meglio.
Sono questi, i migranti che vogliamo cacciare. Ragazze e ragazzi che parlano spesso anche 3-4 lingue, spesso bendisposti ad imparare l’italiano, spesso volenterosi di lavorare al più presto, spesso preoccupati per i familiari lontani. Sono ragazzi con il taccuino in mano mentre noi, se troviamo una parola scritta in una lingua straniera, facciamo spallucce e giriamo pagina, cambiamo canale. Sono ragazzi che hanno fame e sete di vita ed hanno tutte le potenzialità per costruirne una. Io ritengo una fortuna immensa poter avere attorno giovani così. Io ci investirei più di qualcosa, e magari scoprirei che piano piano l’Italia può anche essere un posto vivibile, e piano piano magari smetterebbero di scappare, e magari mi ci fermerei con più serenità anche io, in Italia.
Magari scopriremmo – tutti – com’è sorridere senza l’aiuto di antidepressivi.
Torno a casa con il sorriso, dopo aver passato la giornata con i miei ragazzi. Ma è un attimo e la serenità svanisce: basta aprire la tv. Salvini, Trump, odio ovunque. Spengo. Penso al ragazzo con il taccuino e spero che lui, invece, stia guardando un bel film.