Viaggiatore malinconico
C’era quella flotta di ragazzi, in metropolitana tutte le mattine, che gli davano, insieme, un sorriso di tenerezza, un velo di malinconico languore e un sotterraneo colpo allo stomaco. Lui, così fisso, nel suo fisso andare al lavoro quotidiano, senza voli, senza fantasie, senza digressioni. Se non quelle pensate attraverso i volti di quei ragazzi. Quasi tutti universitari. Quelli più timidi, tra i maschi, che riuscivano a parlare con le ragazze solo di esami, lezioni, professori. Che non guardavano negli occhi l’interlocutrice, nel timore che uno sguardo anche fugace potesse tradire emozioni e pensieri inconfessabili. E poi quelli più spigliati: quelli che ne sanno sempre una più degli altri, quelli che sanno come fregare il professore, come trovare sempre un posto libero anche arrivando all’ultimo minuto, quelli che studiano, si divertono, sono pieni di ragazze. Sanno far tutto, hanno il tempo per tutto, riescono in tutto. E parlano. Parlano tanto e come per magia hanno sempre un pubblico che li ascolta. Lui li osservava, e pensava a quando parla lui, che stenta persino ad ascoltarsi da solo.
Il suo tragitto durava mezzora scarsa, tutte le mattine. E tutte le mattine partiva con l’idea di leggere o ascoltare musica in cuffia, isolandosi dal mondo; e invece finiva col perdersi nel ruolo di spettatore di quel piccolo teatro di socialità quotidiana. Una metro affollata, ragazzi, persone, estranei. Ciascuno con una piccola parte di quello che lui era stato e che -il più delle volte- rimpiangeva di non essere più. Oppure rimpiangeva ciò che avrebbe potuto essere e non era stato. Per timidezza, per incapacità oppure perché aveva capito troppo tardi cosa realmente voleva essere. Quando non era più tempo.
Forse era anche lui pieno di rimpianti e di rimorsi, per le cose che non aveva saputo trattenere e per quelle che non aveva saputo conquistare
E poi, quella mattina, senza saper come, il suo sguardo si posò su un anziano. Non ne capitavano molti su quella linea a così forte predominanza di presenza giovanile. Era seduto tre file avanti a lui, sguardo verso il finestrino, a fissare un punto che doveva essere solo nella sua mente e non al di là del vetro. Aveva il volto pieno di malinconia, di dolcezza, di pensieri intelligenti e indefiniti. Provò a immaginarsi la sua vita, tutta quella, corposa, che aveva alle spalle, e quella che doveva esserci ora. Forse era anche lui pieno di rimpianti e di rimorsi, per le cose che non aveva saputo trattenere e per quelle che non aveva saputo conquistare. Lo guardò meglio: in fondo gli somigliava. Alto, longilineo, colori chiari, occhi scuri. Poteva rivedere una versione originale di se stesso, caricato di una trentina o quarantina di anni in più. Ma con gli stessi occhi. E con gli stessi rimpianti.
Voltò di nuovo lo sguardo sui ragazzi: loro così allegramente rumorosi, l’altro, così malinconicamente silenzioso. In fondo, a pochi metri di distanza, c’era l’elastico della vita. Dentro quell’elastico, lui oscillava da un estremo all’altro, e sentiva la sensazione della perdita da una parte e dall’altra. Avrebbe dovuto sentirsi nel punto di perfetto equilibrio di quella corda tesa: invece, sentiva lo spazio di una vita, la sua, raffigurata in pochi metri. Quello che era, o avrebbe voluto essere, e quello che di lì a qualche anno sarebbe diventato.
Voltò di nuovo lo sguardo sui ragazzi: loro così allegramente rumorosi, l’altro, così malinconicamente silenzioso. In fondo, a pochi metri di distanza, c’era l’elastico della vita.
Ora si, cedette al suo rituale, prese le cuffiette, le mise alle orecchie, accese la musica al massimo volume, in riproduzione casuale. Gli capitò Lucio Battisti. Staccò lo sguardo da tutto e si isolò davvero, finalmente. Non scese alla sua fermata, il treno si svuotò e lui rimase seduto a guardare il finestrino, solo. Senza pensieri, senza direzione e lo sguardo perso oltre il vetro. Guardò l’immagine riflessa, era lo stesso sguardo dell’uomo anziano di prima