I candelieri, tra sacro e profano
Alle prime luci del mattino i gremianti iniziano la vestizione dei candelieri. Ogni 14 di agosto il voto si rinnova e la città fa festa. Ma non solo. Ogni anno l’evento attira anche un numero di turisti sempre più grande.
Quando arriva il giorno de la faradda, così si chiama in sassarese la discesa dei candelieri, anche chi non è della città sente un clima diverso. L’aria di festa si respira in ogni angolo del centro. Non è per gli addobbi, non è per le bancherelle. È un qualcosa di impalpabile che ti si attacca addosso quando passeggi per le strade, che ti penetra sottopelle e ti scorre nelle vene fino a farti battere il cuore sempre più forte. Al mattino, dopo la vestizione, ogni gremio inizia le prove delle danze. I grandi ceri oscillano come a voler disegnare con il loro possente capitello invisibili segni nel cielo. Il vino disseta le gole arse dei portatori. I ceri sono belli. Inutile usare altre parole.
A ogni cero corrisponde un gremio, una corporazione degli antichi mestieri, dieci. La faradda affonda le sue radici di origine pisana nel XIII secolo quando Sassari fece un voto alla Madonna per intercedere a favore della popolazione durante una tremenda pestilenza che afflisse la città. Ogni anno il voto viene sciolto tra danze e suoni. Il ritmo cadenzato del tamburo, accompagnato dalla melodia del piffero, melodia caratteristica, segnano i passi della danza che ogni cero compie lungo tutto il percorso. I portatori sudano, respirano, muovono a ritmo i piedi. I loro cuori palpitano per la passione e per la fatica. Le gambe sono pesanti, la testa stanca, le braccia intorpidite, ma nessuno molla mai, nessuno cede, nessuno perde il ritmo.
Alcuni ceri hanno lunghi nastri colorati che vengono sorretti dai ragazzi e dai bambini. Si arrotolano lungo il fusto del candeliere cingendolo, poi srotolandosi tra colori e l’incitamento della folla che urla “fallu baddà, fallu baddà” (fallo ballare). Assistere a questo spettacolo è un’emozione che si rinnova ogni anno per i sassaresi, ma per i turisti è un evento singolare, una tradizione forse per i meno informati incomprensibile, ma che con le sue coreografie incanta e tiene con lo sguardo inchiodato sui candelieri. Sfilano uno dietro l’altro, snodandosi lungo un percorso fatto di lastroni e ciottoli, impervio, insidioso. Tutta la città si riversa sulle strade. Aspetta. Alcuni invadono la strada e seguono le danze dei ceri, spostandosi solo all’ultimo minuto per non essere travolti dai portatori. Le gambe sono pesanti, la testa stanca, le braccia intorpidite, ma nessuno molla mai, nessuno cede, nessuno perde il ritmo.
Il profumo dell’arrosto sfuma in quello dolciastro dello zucchero filato e delle bancherelle di torrone. I bambini emulano con piccoli tamburi le gesta dei tamburini dei gremi. Bisogna saperlo suonare il tamburo, sebbene apparentemente sembri semplice. Il suono della membrana, il ritmo particolare, richiedono una perizia che si acquisisce per talento o per allenamento.
Ma c’è anche un lato profano di questa festa: la discesa del sindaco che si mostra alla folla, pronto a ricevere applausi e fischi. E quest’anno i fischi non sono mancati. Tutta la città si sfoga sul bordo del marciapiede fischiando e, talvolta inveendo, contro il primo cittadino. Ricordo un anno in cui assieme al quotidiano locale distribuirono anche dei fischietti per l’occasione.
Entro la mezzanotte i ceri raggiungono la chiesa di Santa Maria di Betlem. L’ingresso è seguito da una folla sempre più vasta. Schiacciati come i piumini sottovuoto, gli astanti non si curano di un gomito in pancia o di una sigaretta che pericolosamente si avvicina al vestito “buono”. La messa solenne conclude la serata. I ceri resteranno per qualche giorno all’interno della chiesa, poi ciascuno ritornerà nella sua cappella, spogliato degli orpelli, messo a riposo fino alla festa del gremio in cui verrà nuovamente sfoggiato tra le vie del centro.