Sopra un pedalò (intermezzo felice)
Alcune rimasero a casa, il caldo e il salgemma non erano cosa per loro. Altre le portai con me in auto, ma evaporarono sotto forma di parole. Altre ancora resistettero fin sulla spiaggia, ma la sabbia grossa e calda che penetrava negli interstizi delle dita del piede e ne massaggiava la pianta mi provocarono un moto interno che dagli arti inferiori si propagò ovunque nel mio corpo. Forse non se lo aspettavano uno scossone di questo tipo. E se ne uscirono, senza immagine proferire, attendendo anch’esse il mio ritorno.
Solamente le più radicate, vere e proprie canaglie, resistettero alla prova della giornata al mare. Erano le cose più brutte, i pensieri fradici di pessimismo, le proiezioni di un lungo medioevo che da tempo mi accompagna, le scelte sbagliate, quelle sfortunate, gli abbandoni e l’ineluttabilità di un destino che pare intransigente nella sua cattiveria. Una nutrita e quanto mai infelice compagnia, insomma.
Eppure arrivò un momento in cui anche questi insopportabili compagni di disavventura dovettero sloggiare, sebbene per un tempo limitato. E questo fu quando montai sul pedalò, quando infilai i piedi nelle staffe e mulinai i pedali con la grinta di un Fiorenzo Magni d’annata. Non so se fu attraverso i pori che si librarono in aria o se fu piuttosto l’acqua salmastra a discioglierne l’insopportabile essenza, ma in ogni caso mi abbandonarono ed io ero leggero, più leggero dei gabbiani che fendevano l’aria, dei lettini gonfiabili spostati dal vento e dalle correnti e dei bambini che si tuffavano dagli scogli. La differenza sta tutta nel peso. Le cose brutte sono zavorre, sono solide, ingombranti. I periodi felici li riconosci per questo: ti senti leggero, senza carichi pesanti ad opprimerti l’anima, ad impedirti di guardare avanti senza paura. La felicità è così leggera da renderti capace di camminare sull’acqua come un pedalò.
La felicità la riconosci quando arriva. E pure quando se ne va, non puoi che accorgertene. La felicità è effimera, liquida, pazza. Va rispettata, Sopra un pedalò tutto è il contrario della terraferma. Sul pedalò il futuro è l’orizzonte infinito del mare, le rotte possibili sono innumerevoli, le opportunità inimmaginabili.
Ma io ero su un pedalò, il sole non faceva differenze tra belli e brutti, l’animo era corroborato dai raggi solari riflessi dall’acqua del mare. La terraferma con le famigliole felici si faceva lontana, il mare era trasparente, i pesci passeggiavano tranquilli e le montagne sopra il paese parevano abbandonate dall’uomo e quindi anch’esse felici.
Sopra un pedalò non ci puoi portare le cose brutte. Quelle ti attendono sul bagnasciuga, o forse a casa. Non te ne disfarai con una gita in pedalò, alla sera la loro spregevole compagnia tornerà a farti visita. Ma in pedalò, su quel pezzo di vetroresina che galleggia a pelo d’acqua, loro non possono venire.
Sopra un pedalò tutto è il contrario che nella terraferma. Sul pedalò il futuro è l’orizzonte infinito del mare, le rotte possibili sono innumerevoli, le opportunità inimmaginabili. Sul pedalò il passato è una scia che in pochi secondi le onde cancellano, il futuro è un mare cristallino mai solcato da nessuno. Sul pedalò è bello sia quello che hai visto che quello che vedrai. Sul pedalò le scelte non sono mai sbagliate. Sul pedalò la fortuna non serve, bastano l’impegno e la fantasia.
Scorreva il pedalò, ora sospinto da altre gambe. Io, a poppa, me ne stavo rannicchiato con le braccia strette alle ginocchia. Le labbra assaporavano il sale sulla spalla destra, gli occhi osservavano l’orizzonte e si perdevano nelle infinite trame che la luce crea con l’acqua del mare. Ero leggero. Si, me la ricordavo proprio così, la felicità.