Traghetti per la Sardegna, viaggio nell’isolitudine
I suoni del porto, quasi non me li ricordavo più. Eppure ci andavo così spesso. I motori e le sirene delle navi squarciavano le ombre del tramonto. Puzza di olio bruciato. Salutavo i miei zii di Genova, salivano sulla nave, come inghiottiti da una balena di ferro, scomparivano dentro la pancia enorme. Ancora un suono di sirene, stonate, potenti, poi si tornava a casa. Era sempre così, al porto si andava a salutare qualcuno che doveva andare via. Io stavo sempre sul molo. In realtà avevo viaggiato molte volte con i traghetti per la Sardegna, ma ogni volta che qualcuno lasciava l’isola mi prendeva come una morsa allo stomaco. Non era una vera e propria voglia di fuga, quanto un desiderio di scoperta, di esplorare un territorio nuovo, con tutto l’entusiasmo della fanciullezza, un primo sintomo dell’isolitudine.
Il termine coniato da Gesualdo Bufalino per i siciliani si adatta perfettamente anche al sentimento di noi sardi. Almeno, al mio di sicuro. Ma allora ancora non sapevo cosa fosse, non riuscivo a definire quella malinconia nostalgica ed entusiasta, quella voglia di andare e di restare che ti da lo slancio per partire e poi ti blocca sulla scaletta della nave. Sono partita tante volte, ma sono sempre rientrata, anche dopo molto tempo. Le cose non ti aspettano mai come le lasci.
Erano anni che non andavo al porto a vedere le navi. Ora non ci sono più, attraccano al molo industriale. Niente più sirene rauche impastate alle grida dei gabbiani. Solo silenziose barche da pesca, muti testimoni del cambiamento in atto. L’acqua plumbea del molo non riflette le immagini di chi vi si specchia, come succede ai vampiri. Vampirizzato. Lo spirito del porto è stato vampirizzato. Pure i gabbiani sembrano avere un accento snob, ingrassati giorno dopo giorno dai regali dei pescatori. Non c’è più quella frenesia di auto in coda che strombazzavano nervose, né di bar stracolmi di turisti. Mi rivedo saltellare, tra i gas di scarico delle auto in attesa di imbarcarsi, con un’eccitazione destinata a scemare sulla scia di schiuma lasciata dalla Tirrenia sul mare.
Ho provato a rivivere quell’emozione, quella voglia di partenza che oggi non ho più, scalzata con veemenza dalla voglia di restare, di fermarmi. Fa caldo, l’asfalto mi sputa in faccia il sole della giornata, masticato e digerito. Non ho più viaggiato con i traghetti per la Sardegna. L’aereo, quando non sei in vacanza e hai fretta di andare e venire, è scelta quasi obbligata per chi ha il mare da attraversare.
Una piccola imbarcazione fende la linea dell’orizzonte col suo blu acceso. Rientra dopo una giornata di pesca, chissà se sarà stata una buona uscita. Suona. Suona un qualcosa di simile alla sirena delle navi, ma in scala ridotta, al punto che, in confronto, sembra la nota di una cornamusa uscita per caso mentre il mantice si sgonfia. Niente urla di quelli che genericamente venivano definiti scaricatori di porto, niente catene da legare ai fermi in cemento, ormai diventati poltrone privilegiate di vecchietti solitari.
Forse la movida del porto si è spostata al molo industriale, magari sono tutti li i passeggeri della mia infanzia, che in file disordinate lasciano la mia isola per farsi ingoiare dal mostro di ferro. O forse hanno davvero ragione quelli che dicono che i traghetti per la Sardegna sono troppo cari e nessuno li prende più. Tanto ormai pure i Vip smeraldini hanno deciso di abbandonare il quartier generale isolano della Costa Smeralda e farsi una nuova sede chissà dove. Poco importa. Il fragore delle loro notti insonni, tra discoteche esclusive e colazioni da 50 euro non mi hanno mai affascinata.
Lascio mesta la zona degli imbarchi, o meglio, quella che era la zona degli imbarchi. Il nero delle acque tinge anche il cielo. Poche luci illuminano la Torre aragonese, spettatrice involontaria del declino o della riqualificazione, come la chiamano da queste parti.