Realtà sospese
Realtà sospese tra le quinte assolate di via Alloro, spina dorsale dell’antico quartiere della Kalsa e percorso suggestivo costellato di prestigiosi palazzi storici.
Camminiamo radenti ai prospetti. Ascolto l’eco dei nostri passi rallentati dall’afa, il sole brucia i nostri abiti e un velo di fiamma sfiora le mie braccia nude. È pomeriggio inoltrato.
Poco prima di incrociare il vicolo Sciara, una manciata di freschi goccioloni viene giù dal cielo. Non ci prestiamo caso, perché capita spesso che in Sicilia piova sotto l’afa.
In fondo al vicolo la sagoma alta e inconfondibile di Tommaso Nicolicchia. Ci avviciniamo, indossa una bella camicia di lino bianca, candida e perfetta come la sua barba. Una stretta di mano e ci invita ad entrare nella sala delle ex Scuderie di Palazzo Cefalà. Ci presenta al Maestro Tommaso Domina che ci accoglie con sorrisi ospitali e frizzante entusiasmo.
Mi aspettavo opere in pietra o bronzo, statiche nel loro dinamismo emozionale, singolari.
Al contrario, vedo sculture leggere appese alle nuvole. Vanno su e giù vibrando nell’aria: una giostra fluttuante di figure.
L’installazione è tutta da percorrere.
Sprofondo in un sogno che affiora con giochi infantili: giochi d’acqua e giochi aerei; l’insieme primario degli elementi tende verso l’alto, intercetta curve eleganti di trapezisti e ballerini e arriva, con l’acrobata disarcionata, a toccare le nuvole.
Questo sogno, immagine alata di donna che levita dal proprio corpo, si scompagina divenendo realtà.
Dall’etereo al terreno osservo l’eterno mistero della nascita svelato dall’utero trasparente della madre. Maternità si palesa assumendo significati più estesi, mi si presentano le madri del mondo, del dono incondizionato e forse ancor più grande: le madri oltre il tangibile.
Più avanti mi soffermo sull’identità di genere, osservo due figure dello stesso sesso e complementari, angeli da un’ala sola, uniti spiccano il volo sopra i pregiudizi.
Poi mi accorgo che nelle diversità etniche la maschera è dono d’uguaglianza. E il potere, nell’antica veste del burattinaio, è testimoniato dal tema dei fili dell’oblio mentre pennellate di rosso mi rimandano alla violenza contro le donne e al femminicidio.
Nel giudizio uomini nudi da sovrastrutture inibitorie e soggettive, osservano e si osservano nel loro muto pudore.
Un elemento accomuna i personaggi: tutti indossano una maschera.
Eco pirandelliana di uno, nessuno e centomila volti, nei quali ci chiediamo: chi sono? Chi mi riconosce? Con quale identità?
Acqua e terra, così fummo plasmati: è anche questo il concetto della maschera, che non è omologazione delle individualità ma riconoscimento di uguaglianza tra gli uomini.
Realtà sospese come foglie. Realtà in divenire come le emozioni. Sculture oscillanti con le nostre emozioni.
Mi accorgo che i bambini, forse più che noi adulti, osservano rapiti la giostra emotiva tra cielo e terra.
Lo stesso stupore mi intrattiene quando, ritornando dall’uomo sulla croce, questa volta mi presenta il suo volto.
Lo guardo negli occhi.
Il bianco sul viso che ora vedo più da vicino e dall’alto, non è maschera ma benda. Davanti al dolore la maschera si disfa: impronta indelebile del nostro essere.
Davanti al dolore la maschera si disfa: impronta indelebile del nostro essere.
Mi fissa attonito com’è la sofferenza. Poco distante un fulmine rompe il silenzio e un fresco vento di ristoro scardina l’antico portale. Intanto fuori la pioggia torrenziale ha già spento, prodigiosa, quell’arido pomeriggio d’estate.