Niente paura
Sto vedendo Breaking Bad. Lo so che quelli di voi che l’hanno seguito in questi 5 anni diranno una frase a scelta tra “Oh, alla buonora!” e “Come hai fatto a vivere senza fino a questo momento?”. Gli altri che non sanno cos’è, stiano lontani dai fan di Breaking Bad, perché se prima erano solo esagitati adesso che la serie è conclusa sono anche persone tristissime.
Io l’ho praticamente appena cominciato e ad uncertopunto succede unacertacosa, che non vi dirò, ma su cui vorrei fare una riflessione.
La storia, Spoiler Alert Free, è questa: Walter ha un tumore ai polmoni. E lo si scopre nei primi dieci secondi della prima serie. Walter è un uomo di cinquant’anni con una vita passata in sordina, nascosto senza far rumore nel suo piccolo angolo di mondo, con il suo piccolo lavoro di insegnante di liceo, la sua piccola famiglia felice, nonostante un figlio non del tutto normale. Una casa. Due macchine… insomma, avete presente tutto il quadretto che ti hanno dipinto quando eri bambino per farti capire cosa dovevi desiderare dalla vita per essere felice? Passata la fase dell’astronauta, intendo. E prima della consapevolezza della crisi e del lavoro che non c’è.
Quest’uomo sembra che abbia la sua vita da Mulino che vorrei. Va tutto bene, fino a quei fatidici dieci secondi. Quelli lì in cui ti arriva una brutta notizia ed esci dal tuo corpo e ti guardi da fuori. Succede davvero così. E in quel momento, solo in quello, vedi il quadro d’insieme. Per costruirlo, quel Mulino, Walter si è dovuto accontentare. E l’ha fatto per la paura di non poter arrivare più in alto.
“Ho passato tutta la vita nel terrore. Terrorizzato dalle cose che potevano succedere. Che sarebbero o non sarebbero potute succedere. Sono andato avanti così per cinquant’anni. A ritrovarmi sveglio alle tre del mattino. Ma sai una cosa? Da quando mi hanno diagnosticato il tumore dormo una meraviglia”
Mentre Walter mi diceva tutto questo, io pensavo: ma non siamo tutti così? E non contenti della codardia, ci giustifichiamo anche con un sacco di bugie. “Ah, ma non ho tempo per farlo” oppure “non ho soldi” oppure “ma non è nel mio carattere”. E alla fine quello che succede è che magari si arriva a cinquant’anni e capita qualcosa, come un tumore, che ti fa suonare una campanella nel cervello. Tipo quelle degli alberghi. Ti avverte: ok, la cosa terribile è arrivata, contento? Possiamo andare a fare un po’ di cose ora?
Ho pensato a tutto questo perché, alla fine, non si scatta solo di fronte alla morte. Noi venti-trentenni del 2013 questa storia la conosciamo bene. Ed è la base di un vecchio tema che affronto da anni sui blog: poveri giovani italiani privati del loro futuro, come faranno adesso? Come faccio io, adesso? Io, che davvero ci sono cresciuta, con Walt Disney e con il mio Mulino ben stampato in mente?
Poi arriva lei, la terza fase, il cambiamento. Non ce l’avrai il Mulino. E, anzi, sai la novità? Non lo vuoi neanche più.
C’è un brano di un libro di Nick Hornby che parla proprio di questo, in chiave un po’ polemica:
“Il problema della mia generazione è che ci sentiamo tutti dei geni del cazzo. Far qualcosa per noi non è abbastanza e neanche vendere qualcosa, o insegnare qualcosa, o solamente combinare qualcosa: no, noi dobbiamo essere qualcosa”.
Famosi, ricchi, fighissimi. È vero. Abbiamo questa smania di arrivare in cima a una piramide che non esiste o, se esiste, è blindata. Ma la voglia di scalare ci è venuta, perché ce l’hanno derubata un po’, la storia del Mulino che vorrei. E allora, già che non posso stazionare in nessun luogo, vediamo che si prova a salire in alto.
Per evitare di arrivare a quel punto in cui ti chiedi se potevi fare di più. Questo è quello che la crisi ci insegna. La domanda dovrebbe essere una sola: cosa faresti se non avessi più paura?