Il Gabbiano: dov’è l’essenza umana nella società di massa?
L’ho letto di un fiato dopo averlo preso in prestito in biblioteca mossa da pura ispirazione, ignorando ogni traccia biografica dell’autore. Volutamente non mi sono documentata. Mentre leggevo, non sapevo a cosa aggrapparmi, a che schema rifarmi, come giustificare le suggestioni. Ho lasciato che fossero le parole a guidarmi.
È in questa maniera che ho scelto di leggere “Il gabbiano”, di Sándor Márai, edito da Adelphi soltanto nel 2011. La scoperta di questo genio ungherese, infatti, è avvenuta in Italia negli ultimi anni e posso dire ora, con cognizione di causa, che è un vero peccato. Avrei voluto conoscerlo prima di intraprendere il mio viaggio a Budapest, lasciare che fosse lui a raccontarmi la città rendendola un po’ più simile al sogno.
Ciononostante, mantenerlo come lettura estiva è stato sinonimo di dedicarmi per tre quattro giorni al librarsi concatenato di quelle frasi magistralmente formulate, alle riflessioni tormentate e profonde, alla contemplazione edonistica di quella perfezione. Leggevo e mi sentivo meglio, leggevo e in qualche modo mi trasfiguravo. Non mi capitava da parecchio.
Di certo parte del merito noi italiani lo dobbiamo attribuire a Laura Sgarioto, la traduttrice.
Per questo motivo, propongo anche ai lettori de La Grasse Matinée una lettura decontestualizzata simile a quella che ho mandato avanti io. Ho rivelato già la provenienza dell’autore – o magari nessuno dei lettori la ignorava, lascio il beneficio del dubbio su questo punto ed ammetto la mia grande ignoranza nei confronti della letteratura mondiale –, non mi spingerò oltre. Non importa in particolar modo la trama: questa non è una recensione. Mi focalizzerò sulla densità delle emozioni che emergono nelle riflessioni dell’io protagonista. Perché, senza queste, la trama perderebbe metà del fascino.
Un uomo nel cui ufficio entra una donna splendida, identica all’amata del protagonista. Che si è suicidata per amore di un altro. Ma la donna dell’ufficio ha un altro nome, Aino Laine, che in finlandese significa Unica Onda.
Una storia del genere deve essere narrata con maestria, altrimenti è uno sbrodolamento continuo dal retrogusto goffamente romantico.
L’autore ungherese non delude. La protagonista è più che degna del nome evocativo di Unica Onda.
“Sono davvero io a volere quest’incontro? … Oppure c’è qualcuno che vuole giocarmi un macabro scherzo? È grottesco e spaventoso già solo il fatto che sulla terra viva un altro esemplare del volto, del corpo, della creatura che ho amato – e forse ci sono molte altre Ili, in Finlandia, e in Svezia o a Barcellona, chissà dove. Come manichini nei depositi delle sartorie, da qualche parte giacciono volti e corpi identici… Non è oltraggioso? Si crede di avere amato qualcuno di unico, nella sua fatale e magnifica individualità. E forse anch’io vago per il mondo in diversi esemplari, attraverso le epoche e i paesi. Sì, mi era già capitato di incontrare me stesso: a Parigi, su un autobus, sei anni fa. La scelta non è poi così ampia come crediamo, pensa. Uno immagina di essere stato creato in un unico esemplare, e un giorno è costretto a rendersi conto di essere una volgare copia: un tempo, da qualche parte, c’è stato un modello che la natura ha imitato con indifferenza e perizia, ripetendolo in una sorta di automatismo attraverso i tempi.”
La prima cosa che il protagonista afferra di fronte all’incontro di una donna incredibilmente simile all’amata è il grottesco paradossale che vi si cela. Lo sbigottimento che si scatena di fronte al paradosso, quando la ragione è costretta ad abdicare.
“Sappiamo così poco di noi stessi, persino del nostro corpo. E dunque cosa mai potrò aspettarmi dall’anima, la cui natura mi è del tutto ignota e della quale percepisco soltanto i moti? E dall’anima altrui, che ovviamente conosco molto meno della mia? Cosa possiamo aspettarci gli uni dagli altri, noi uomini?…”
“Un bacio, perché in fondo alla vita c’è il bacio; un bacio, perché solo così i corpi riescono a esprimere quel che cercano per tutta l’esistenza. […] Si sono baciati perché non potevano fare altro. E ora tacciono.
Tacciono senza pathos, temono che persino il loro silenzio possa snaturare quel bacio. […]”
Inizia così una messa in dubbio che parte dalla confusione di due volti per poi passare al dilemma del doppio, dello sfaccettamento, del disorientamento di fronte all’impossibilità di intuire cosa definisca l’identità umana, una riflessione profonda ma interrotta alla ricerca dell’essenza che ci rende unici. Riflessioni ulteriormente significative perché emerse dal pugno dell’autore proprio quando la società di massa iniziava ad imporsi. A tal proposito, egli risulta quasi profeta:
“Questi ormai non sono più individui, ma solo dati in una statistica. Non hanno più coscienza né della loro vita, né della loro morte.”
“L’uomo della massa è un genere nuovo”
“Ben presto si comincerà a raccogliere di tutto, in modo avido e forsennato – l’oro rotto e le calze di seta – ma si farà anche incetta di esperienze, frettolosamente, tra un bombardamento e l’altro ci si sforzerà di accumulare una convulsa eccitazione, fermamente convinti che sia equivalente all’esperienza di amore.”
L’ultima citazione mi ha fatto pensare ad una sorta di profezia del mercato vintage e di tante altre stranezze in voga oggigiorno.
Ma non solo: si parla di bombe, inizio ad immaginare un potenziale contesto da cui l’autore probabilmente proviene. Ma proseguo con la lettura, non è lo scrittore ad interessarmi, per ora.
Mi interessano quell’uomo e quella donna così diversi, i loro scambi di battute, la rigidità di lui ed il fascino mellifluo di lei che con saggezza noncurante evidenzia appena quello scarto che li mantiene distanti, che ingabbia lui in una prigione di razionalità.
“Se vuoi […] racconta pure. Di sicuro avrai un motivo per raccontare”
“Un motivo?… […] Un motivo, dici… Questa è un’espressione così tipicamente maschile. A volte si dicono o si fanno delle cose senza un motivo, giusto perché si può, perché si ha l’occasione di dire o fare qualcosa. Non conosci questo impulso?”
“Oh, proprio come immaginavo… Tu sei talmente serio, la personificazione della disciplina e del senso del dovere. Devi essere un eccellente funzionario.”
Lo scarto fra i due si fa maggiore quando lui loda un’idealizzata vita in campagna mentre lei, improvvisamente pragmatica e concreta, ne scova la scarsa spontaneità.
“Perché giudichi? Perché inganni te stesso? In questi ultimi mille anni non è stato forse nelle città che è stato concepito tutto ciò che ha reso la vita sensata ed emozionante?… Le donne almeno sono sincere. E adesso che le città si sono gonfiate in modo sovrumano, adesso che la vita ha cessato di essere a misura d’uomo, sarà forse sincera quest’artificiosa fuga verso il villaggio e la natura?”
I due si passano il testimone, prendendo a turno il ruolo di romantici e di razionali.
L’animo tormentato del protagonista sente potente il richiamo alla solitudine:
“Come un uomo che prova vergogna nel vortice di un ballo in maschera degenerato in gozzoviglia, e a un tratto getta via la maschera e il costume dietro ai quali si celava durante le danze. Adesso basta, pensa, signore e signori: voglio andare a casa. A casa, nella mia solitudine. Ne ho abbastanza di questo ruolo da pagliaccio.”
Scorrono le pagine e le riflessioni non perdono spessore. Si dice che il libro sia stato scritto dall’autore per trovare un filo conduttore ad una serie di riflessioni. [Ops: non dovevo dirlo!] Ma il problema non si pone: leggendolo, a me non ha dato quell’impressione. Benché siano proprio le riflessioni ad avermi colpito. Non lo avrebbero però fatto, suppongo, senza incastrarsi in una trama così ben trasposta.
Pensieri del genere non passano senza lasciare segno:
“Poi un giorno mi hai detto che non c’è niente di più bello della dolcezza… E questa affermazione eri tu, ma soltanto come lo sono le tue unghie o i tuoi capelli, che tagli e poi ricrescono – tu sei le tue unghie e i tuoi capelli e al tempo stesso non lo sei… A quanto pare, noi esseri umani possiamo esistere in una grande varietà di modi. Ma tutto ciò noi lo registriamo, e ci limitiamo a viverlo […]
Vuoi dire […] che io non sono del tutto io? Che razza di idea, amico mio!
Un’idea crudele […] Anch’io ne sono sconcertato, ma non posso dire altro. […] Un po’ mi spaventa. Anzi, credo di aver paura solo di questo, e di nient’altro.”
“So che si può uccidere in modo sottile. Si può uccidere una persona senza veleno e senza pugnale, senza parole, si può uccidere semplicemente comportandosi in un certo modo…” […] “Una persona può annientarne un’altra senza concederle nulla; legandola a sé, ma al contempo impedendole di avvicinarsi troppo, evitando di stringere con lei un vero legame. Chi viene separato e isolato in tal modo dal mondo finisce per soccombere. Perché resta da solo, ma non è neanche del tutto solo, vive in una specie di vincolo, ma chi lo tiene prigioniero non se ne prende cura… Capisce? Ma con argomenti del genere non posso andare dalla polizia. No, la polizia non sa che farsene di queste lettere.”
Ma è vero anche che le azioni rimangono addosso. Ci sono due pagine che descrivono un bacio: le riporterei per intero, se non fosse per il vincolo della lunghezza dell’articolo.
Eccone un concentrato:
“Un bacio, perché in fondo alla vita c’è il bacio; un bacio, perché solo così i corpi riescono a esprimere quel che cercano per tutta l’esistenza. […] Si sono baciati perché non potevano fare altro. E ora tacciono.
Tacciono senza pathos, temono che persino il loro silenzio possa snaturare quel bacio. […]”
Nelle pagine di Márai io mi sono amabilmente persa. Interrogata di continuo senza trovare soluzione. È un libro crudele, “Il gabbiano”. Un libro sottile in cui il lettore divora pagine in balia di un’inspiegabile voracità letteraria. Poi, giunto alla fine, realizza senza proferire parola la perfetta circolarità nascosta nel romanzo dell’ungherese. Con maestria ci aveva distratto sprofondandoci in riflessioni filosofiche e intanto la trama ci riservava un’inatteso finale. Un cerchio magico è l’immagine che ho in mente quando penso alla trama de “Il gabbiano”.
Quanto alla crudeltà, l’autore abbandona anche quella, sul finire del romanzo. Quasi a mo’ di ringraziamento per il lettore che lo sta seguendo nel racconto, dà finalmente la sua spiegazione di cosa sia l’ “essenza umana”, in un mondo dove la natura si diverte a creare uomini con lo stampino, riproduzioni fedeli di un ignoto originale.
E io la lascio in conclusione, a disponibilità di chi la voglia sapere anticipatamente – e poi magari scegliere di leggerlo comunque per intero!
Per gli altri: buona lettura!
“La sfumatura, vedi, sei tu, a livello personale… quel qualcosa in più, l’individualità che è soltanto tua e che non condividi con nessuno, grazie alla quale non assomigli e non replichi. Perché quel che tu e io siamo sotto altri aspetti, la nostra situazione e il nostro segreto, se davvero esiste qualcosa di simile – ebbene, tutto questo esiste secondo la legge ed è una replica. Ma è nella sfumatura che siamo diversi, nelle sfumature ci mutiamo in individualità evanescenti, simili a ombre, dunque dotate di libero arbitrio. È qui che cominciamo, tu e io, nella sfumatura. Il resto è legge. Questa legge si può contemplare soltanto con umiltà, come tutto ciò che appartiene a Dio – e ci sono persone che non riescono a considerare la storia del genere umano se non come la rudimentale manifestazione terrena della legge della ripetizione; ci sono studiosi di scienze naturali, storiografi e poeti che considerano l’essere umano come impersonale ripetersi dello stesso e unico fenomeno nel corso dell’intera tragica commedia. È un punto di vista orgoglioso, lo è nonostante tutta la sua apparente umiltà.”