E in nave mi viene in mente mio padre
Una voce femminile annuncia che la cena è disponibile al ristorante di bordo, i passeggeri possono accomodarsi. Siamo ancora in banchina, la partenza è prevista tra almeno quarantacinque minuti. Viaggio da solo e questa della cena mi sembra una buona idea per ingannare il tempo. Provengo da una famiglia di marittimi, mi hanno insegnato che se il ristorante di una nave passeggeri apre ben prima di lasciare il molo, significa che prima o poi si ballerà. Percorro il corridoio verso la sala lentamente, guardandomi intorno per scorgere qualche faccia interessante, ma non vedo nulla di significativo. Una scolaresca bivacca sulla moquette, una coppia anziana gioca a scala quaranta, diversi camionisti sono attaccati al cellulare per stabilire la tabella di marcia del mattino dopo, una tipa sulla trentina sbraita di un presunto fidanzato sottrattole dalla sua ex migliore amica. Insomma, nessuno da invitare. Faccio parte della scuola di pensiero “meglio soli che male accompagnati”.
È un mio vizio. Una pessima compagnia a cena disturba il godimento del cibo e toglie il piacere di parlare con il proprio cervello. Spesso mi danno dell’arrogante per questa mia filosofia di vita, ma che posso farci, mi basto da solo. Stare con altre persone mi piace molto, ma deve avere un senso, uno scambio mentale, altrimenti è solo forzata convivenza. Il televisore è sintonizzato su un canale che abolirei con una legge d’urgenza, ma almeno sta trasmettendo un tg. So già che mi incazzerò come una bestia per quanto manipoleranno le notizie, ma molto meglio della telenovelas che ho adocchiato alla reception.
Una pessima compagnia a cena disturba il godimento del cibo e toglie il piacere di parlare con il proprio cervello
Dalla vetrata mi accorgo che siamo in movimento, in lontananza già si scorge Capri con le sue luci. Tra meno di un’ora lasceremo il golfo e inizierà il bello, ne sono certo. Mi avvicino al bancone del bar per un caffè. Se proprio dovrò passare la notte in bianco un po’ di caffeina mi sarà d’aiuto. Il barista inguaiato mi chiede il motivo del viaggio, cerco di spiegarglielo ma temo che non abbia mai messo piede a Palermo, per lui la Sicilia è tutta mafia e abbandono, lo dice sempre la Tv, afferma. Ecco, troppe sere a guardare quel maledetto canale. Un tintinnio di bicchieri mi annuncia che abbiamo superato le Colonne d’Ercole del Golfo di Napoli. La nave beccheggia e si sente. Meglio andare in cabina. Non vorrei che gli oggetti lasciati sul tavolino si spiaccicassero sulle pareti. Avanzare non è semplice, il pavimento non pare voler stare al suo posto. Allungo il piede destro e mi trovo ad incrociarlo con il sinistro per non perdere l’equilibrio. Cammino che neppure una modella a Milano Moda. Salgo al ponte nove ancorandomi al corrimano. La maledetta card non vuole saperne di aprire la porta. Dopo vari tentativi e diverse minacce di trasformarla in tanti piccoli coriandoli da affidare alle onde, riesco ad entrare. Sistemo a terra gli oggetti fragili e provo a stendermi.
Non soffro il mal di mare, mai successo. Spero quindi di addormentarmi. L’indomani sarà una giornata intensa ed impegnativa, vorrei non sembrare una rapa lessa. Il sonno tarda ad arrivare, dopotutto non sono abituato ad andare a letto così presto. Guardo fisso nel buio della mia piccola cabina, cerco di fare la lista delle priorità per quando sarò sbarcato. C’è qualcosa che disturba i miei pensieri, qualcosa in fondo all’hard disk dei ricordi che vuole riaffiorare. La nave si inclina sempre di più, sale e scende come una titanica altalena. Sento le spasmodiche torsioni del metallo. Rumori secchi, lunghe vibrazioni. La porta del bagno dell’alloggio a fianco, evidentemente non ancora occupato, sbatte ritmicamente. Nessuna voce, se non quella lamentosa dello scafo. A tratti sembra di cozzare contro qualcosa di durissimo che quasi arresta la corsa.
La nave si inclina sempre di più, sale e scende come una titanica altalena. Sento le spasmodiche torsioni del metallo. Rumori secchi, lunghe vibrazioni
Prima che Junger scrivesse la Tempesta perfetta, quella storia l’avevo già sentita. Solo che si svolgeva nel Mar Baltico. Quella notte le onde erano un muro, scure e aggressive. I turni in plancia furono intensificati. Mio padre non vide la sua cuccetta per diciotto ore di fila. Il capitano in seconda ed il nostromo lo affiancavano alternandosi, ma lui non riusciva a lasciare quel ponte, la sua nave doveva condurla in porto. La prua sfondava il muro d’acqua ed entrava in una spianata, una breve tregua prima di sentire la spinta di poppa. Si saliva in cima al mondo prima di precipitare. Squadre nautiche, cartine, sedie sparse ovunque. I mozzi fecero gran fatica a sgomberare tutto. Fu necessario usare delle cime per rimanere fermi e non essere proiettati chissà dove.
Erano gli anni in cui un canale radiofonico diffondeva le comunicazioni delle navi sparse per il mondo. Niente internet, niente Skype, niente telefoni satellitari. La gente di mare lanciava saluti nell’etere con la certezza di non ricevere risposta. Era un modo per far sapere che si era ancora vivi, ancora un puntino su quella superficie nera come la pece. Spesso le mogli si riunivano per farsi forza. Capitava che qualche equipaggio non desse notizia di sé. Le lacrime scendevano, sia che si riconoscesse una voce sia che non la si sentisse. Non so se oggi succeda ancora, ma allora gli armatori avevano l’abitudine di battezzare le navi con i nomi delle loro figlie. Livia prima, Livia seconda, Angelina, Rossella, me lo ricordo ancora. Qualche volta una di queste bambine non rispondeva all’appello. Si viveva sospesi. Qualche volta quella bambina moriva in fondo al mare. Ho avuto compagni di scuola segnati da queste assenze alla radio. Mio padre è sempre ritornato ma mia madre caricava me e mia sorella in auto quando la nave toccava un porto italiano e ci portava a salutarlo. Per noi era una festa. Ricordo ancora quei corridoi angusti e l’odore di nafta. Ci scappava quasi sempre un regalino comprato ad Hong Kong o in Nord Europa. Dopo anni ho compreso il vero senso di quelle galoppate in automobile. Tutto mi sembrava normale e non l’ho mai ringraziato per quello che faceva, per i sacrifici necessari a sostenere il suo progetto di vita, di cui eravamo parte integrante, se non la principale. Oggi che sono un uomo adulto e sto pensando a tutto questo durante un semplice attraversamento del Tirreno per inseguire le mie passioni, forse realizzo per la prima volta la paura che avrà provato. Negli anni si è creata una scorza di pudore da entrambe le parti. Io non ho mai detto un grazie, lui ha smesso di chiederlo o di aspettarselo. Da stanotte so come stanno davvero le cose. Continuerò a guardarlo invecchiare ma in modo diverso. Lui, invece, continuerà a guardarmi mentre faccio esperimenti di vita, ma con gli stessi occhi di sempre. Lo so.