Fogu, quando la terra brucia
Siamo in estate, fa caldo. Fin qui tutto bene. Bene per chi è in vacanza e riesce a placare l’afa al mare, un po’ meno bene per chi è in città e deve lavorare, peggio ancora per chi lavora all’aperto sotto il sole. Estate per me significa mare, significa invasione di turisti che scendono dalle navi come orde di barbari festanti (e devo dire fortunatamente che ci vengono i turisti sull’isola), ma significa anche fuoco. Per molti sardi l’estate fa rima con incendio. Non c’è rima dite? Oh si che c’è. C’è una rima vomitata, non baciata. C’è una rima che qui ha ancora il puzzo degli arbusti arsi, della macchia mediterranea cancellata in poche ore, Il maestrale in estate, quando “parte” l’incendio è il nemico. Sospinge le fiamme, le incita, le invoglia ad ardere
Avevo nove anni quando ci fu il disastroso incendio di Curraggia. Era il 1983 e faceva un caldo anomalo, quasi come questo, ma meno appiccicoso. Il cielo era diventato grigio, di quel grigio che prelude alle catastrofi e che sembra redarguire prima di elargire un’indimenticabile punizione. L’aria era diventata bollente che faceva quasi male a respirarla. Pezzi di fuliggine arrivavano perfino in città e sì che dalla zona dove si era sviluppato l’incendio dista una cinquantina di chilometri in line d’aria. Sembrava un giorno qualunque, nessuno poteva immaginare sarebbe passato alla storia per la tragicità di quanto accadde.
Fogu. Il fuoco. Il fuoco che flagella non soltanto la Sardegna, ma tantissime altre regioni del nostro mal assemblato Paese. Le fiamme erano partite dalla costa. Certo non per combustione naturale. L’incendio, come nella maggior parte di quelli che si sviluppano sull’isola, era di origine dolosa. Caldo, caldo e vento. Il rumore che fa il maestrale lo conoscete? È una specie di sibilo che accarezza le scogliere a picco sul mare, che spettina la chioma azzurra del mare e si insinua tra gli arbusti fitti e i rami dei ginepri. Scuote le fronde degli ulivi e si attorciglia ai rami di mirto, strisciando silente sui campi arati. Il maestrale in città asciuga i panni stesi al sole e spande tra i vicoli un sentore di salsedine ché il mare infondo non è così lontano. Quel giorno però non doveva esserci. Il maestrale in estate, quando “parte” l’incendio, è il nemico. Sospinge le fiamme, le incita, le invoglia ad ardere. Le solleva da terra e le fa innalzare di parecchi metri, e loro divorano. Divorano tutto ciò che trovano sul loro passaggio: vegetazione, animali, uomini.
Così fecero quel pomeriggio di tanti anni fa. Dalla costa si inerpicarono sulle colline, devastando boschi di sughero e pascoli. L’odore del fuoco ti rimane appiccicato alle narici, non va via se non dopo diverse ore, ma nella terra no, li rimane per mesi, per anni, a ricordo di una sera di follia. Le fiamme sfiorarono Tempio, cittadina montana di granito e acqua buona, raggiunse le campagne di Bortigiadas e lambì quelle di Aggius fino a raggiungere le colline di Curraggia. Quello fu il teatro della lotta dell’uomo contro le fiamme, di quella battaglia già persa ancora prima di essere combattuta. Fu li che nove uomini incontrarono la morte.
Ero piccola e non potevo afferrare bene la proporzione di quanto era accaduto. Sentivo solo la preoccupazione di mia madre che in quelle zone c’è nata, preoccupazione per mia nonna che allora abitava non lontano dai luoghi dell’incendio. Ma è stato dopo, nel tempo, che ho capito quale ferita avevano provocato le fiamme. Quale oltraggio alla madre terra, quale onta. Quanto è in grado l’uomo di devastare e poi per cosa? Ora il verde è nuovamente rigoglioso, ha coperto le cicatrici, ma il fuco continua a bruciare. Continua a rubare lembi di vegetazione, a devastare, ad annerire i colori. L’occhio non vede, ma il cuore sente, sente quell’odore di terra, di piante e di carne bruciata, di terreno bagnato e fuoco spento. Quell’odore che ancora, dopo trentadue anni, in queste giornate, cammina tra gli angoli della mia memoria.
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