L’Isola di Popi
Non è passato molto tempo da quando, durante una vacanza in Grecia di quelle col traghetto e lo zaino, su un’ isola che i turisti non avevano ancora trasformato in una meta ambita, un’isola coi colori delle rocce e del mare, della vite e del fico, conobbi Popi.
Soggiornai nella sua casa semplice incastonata tra le scogliere al limitare di una baia.
Era una baia dalla forma perfetta, disegnata come un sorriso sul volto dell’Egeo. Aveva una spiaggia limitata da rocce frastagliate e verso ponente da un sentiero che giungeva a un promontorio. Questo si appiattiva come una lingua rocciosa nel mare collocando in mezzo all’orizzonte un minuscolo convento bianco.
Popi, giovane e fiera, viveva lì col figlio undicenne. Aveva perso il compagno mentre era in attesa del figlio di lui, lui che non era mai tornato da una battuta di pesca. D’estate gestiva tre camere e un baretto spartano: faceva ottimi milk-shake e mandava musica gradevole fino sulla spiaggia a cullare sogni e ozi dei suoi clienti.
Erano gli anni in cui sul continente Europa tutti vivevano di grandi ambizioni e dispendiose certezze materiali.
Nemmeno i pescatori sanno cos’è questo posto: quando calano le reti fanno gesta ormai automatiche, il vero lavoratore è il mare.
Ero rimasto affascinato da Popi che passava i suoi giorni immersa nell’attività e riusciva a scambiare qualche parola con noi dando l’impressione di non conoscere niente di tutto quello che esisteva lontano da lì. La osservavo, nella sua avvenenza fatta dell’ambra della pelle, colori decisi, uno sguardo vivace.
Avevo voglia di parlarle e scoprire qualcosa di lei, così, prima di lasciare quel luogo e dato che quel pomeriggio era rimasta un po’ più a lungo seduta fuori dal suo locale a farsi trasportare dalla musica, le dissi che avevo pensato di farle un ritratto.
“Lei dipinge?” chiese, “non le ho mai visto colori e pennelli”
“Dipingo” mentii. “Ma non ho niente con me. Intanto fisso immagini nella memoria”.
A Popi non dispiaceva l’idea che qualcuno la dipingesse, non subito mettendola in posa, ma fotografandola prima con gli occhi, e portandosela dietro in un viaggio di ritorno.
Così le dissi: “Semplicemente, mi parli, mi parli un po’ di lei, della sua vita qui, di cosa la tiene legata a questo luogo”.
Allora, quel pomeriggio, Popi entrò nella stanza essenziale che ospitava il suo bar sulla spiaggia, e prese una fotografia.
Ci intrattenemmo a lungo, o meglio, Popi raccontò a lungo, trovando una loquacità che non avevo sospettato nei giorni precedenti.
Il giorno dopo era quello della mia partenza. Ci salutammo con poche parole e un breve abbraccio.
“Vedrò il ritratto?” mi chiese.
“Sì Popi, glielo spedirò appena sarà pronto”, promisi.
Quando a Popi arrivò quella lettera, dovevano essere già passati troppi anni. Perché nel rispondermi sottolineò di non ricordare del ritratto promesso, di un cliente a cui aveva mostrato una preziosa fotografia, e parlato di cose tanto sue.
Non di meno, nel rispondermi, Popi mi confermò che il mio ritratto era fedele, che lei era ancora quella, quella che avevo disegnato con le mie parole. E io, pur aspettandomi che ancora sapesse della mia promessa, e che aspettasse da me un ritratto su tela dove potersi riconoscere, fui felice della sua risposta.
Comunque fosse andata, io non mi sentivo in debito, non avevo mai avuto la sensazione di barare. Sapevo già allora che da quell’incontro sarebbe uscito un ritratto.
Ma insieme alle certezze, spesso vengono le sorprese. Così quello che io spedii a Popi con quella lettera, era un doppio ritratto.
Uno era il ritratto di lei, della sua forza interiore che illuminava quel suo aspetto fiero e mediterraneo.
Quando ti ha ridotto la pelle a pergamena, e gli occhi hanno la ruvidità del sale e del vento, e pensi che domani tirerai la barca in secco e andrai coi nipoti lungo le coste a piccoli pesci, può darsi ancora che tu non torni da un’ultima notte.
Il ritratto che Popi faceva della sua terra era il ritratto di una Grecia non ancora così antica, ma comunque già perduta, che resta come una testimonianza unica in queste parole.
“L’isola ha una natura duplice, e questo può confermarlo chiunque ci viva o ci sia vissuto, ma meglio di tutti chi per lungo tempo ne sia stato lontano. Chiedi al gestore dell’emporio, lui è stato marinaio sulle navi grandi, da crociera. Mentre era ad Acapulco gli nasceva un figlio; tornava da Cadice e gli era morta la vecchia. Tutte le cose della sua vita son successe mentre era lontano, ma ha più chiaro di chiunque altro com’è fatto il nostro vivere. Nemmeno i pescatori sanno cos’è questo posto: quando calano le reti fanno gesta ormai automatiche, il vero lavoratore è il mare. Le reti vengono inghiottite dall’acqua più o meno voracemente, e più o meno generosamente restituite, riempite. Cosa ci facciamo noi, ci spendiamo la forza, la salute. Basta.
Di notte anche i pescatori anziani temono il mare, e lo temono ancora nelle albe livide, sanno che non si fa conoscere, che ti sorprende ancora. Quando ti ha ridotto la pelle a pergamena, e gli occhi hanno la ruvidità del sale e del vento, e pensi che domani tirerai la barca in secco e andrai coi nipoti lungo le coste a piccoli pesci, può darsi ancora che tu non torni da un’ultima notte.
Ogni rapporto col mare rimane incerto perché l’isolano stesso, che più di tutti gli uomini del mondo crede di sapere il mare, finge , e a chiunque dirà che può prevedere lo scadere e il salire dei venti, l’entità delle maree, il colore di tramonti e albe. Uno indovina e si sente grande ma dopo qualche giorno il vento fa di testa sua, salgono i marosi, calano dopo poche ore, tu non ci prendi niente.
Per noi donne il vento è uno spirito, abita l’isola, come noi.
Se ti scegli una donna e le tocchi il cuore e allo scadere del Meltemi ti metti a contare con lei le stelle nella baia allora saprai cosa vuol dire essere felice.
Sull’isola siamo noi donne le più forti, facciamo le regole. Ma gli uomini non ne sono al corrente: siamo noi donne dell’isola una forza silenziosa, subdola.
Quest’isola per qualcuno è un paradiso, ma non per gli abitanti, i nativi. Per noi è destino strano che non puoi scegliere o rifiutare, uno scoglio largo che ti appartiene, una roccia emersa di cui conosci a memoria il confine.
Qualcuno oggi decide di restare ma i vecchi andarono via, erano altri tempi. Chi è andato qualche volta torna, per le pietre e le storie. Chi torna è stanco e sa che qui non hai fretta di dire e di fare, perché guardando a dritto sai sempre dove riposerai lo sguardo.
Se ti scegli una donna deve essere quella giusta altrimenti impazzisci; ma se è quella giusta e le tocchi il cuore e allo scadere del Meltemi ti metti a contare con lei le stelle nella baia allora saprai cosa vuol dire essere felice.
La nostra baia è la più riparata. Il vento del Sud è soprattutto invernale. I nostri figli giocano col mare per molti mesi, d’inverno c’è poco da fare. Dopo la scuola tornando, sulle facce schiarite sembra passato un tempo lunghissimo: l’inverno è tutto un anno sui nostri volti e l’estate un soffio eppure è lei che ci sfinisce.
Col freddo viviamo tutti in una stanza, grandi e piccoli, fratelli, parenti, siamo tutti parenti.
Quel giorno che lui non è più tornato sono andata fuori l’istmo sulla scogliera aperta verso l’Egeo. La voce del vento era come il guaito di un animale.
Sull’isola si impara presto la morte. Qui tutto è più stretto, gli estremi si toccano. Se vuoi imparare a vivere capisci subito che c’è anche la morte. Non ti puoi illudere, manca lo spazio.
A mio figlio non l’ho ancora raccontato. Lui qui non ha bisogno di un padre legale, ha molti padri.
Gli ho indicato lo scoglio che chiude la baia, un lembo di scogliera come una mano tesa che ci protegge, e sopra l’edificio bianco, pacifico.
Gli ho detto: “Un giorno dopo la preghiera, tra le icone, vedrai una foto e ti parranno i tuoi stessi occhi. Devi sapere che al di là di quello scoglio non ti appartiene più niente. Gli occhi, il ricordo, la vita, l’amore… Dove finisce l’isola finiamo noi”.
Sarebbe forse giusto dire a mio figlio che potrà un giorno prendere il suo volo, ma non puoi insegnare a qualcuno un altrove che non sai, quando sei vissuta in un qui che punto per punto, è il tuo cielo.”