Il vecchio e il cane
Aspettami, non tirare il guinzaglio, sto arrivando. Si fa per dire tirare, tu cammini con il bastone, io arrancando, entrambi con i nostri problemi di artrosi. Non è che possiamo vantare velocità da felino, né io né te. Come quel gattino, lo vedi? Ti bastano gli occhiali? Saltella felice insieme ai suoi fratelli, rincorre gli uccellini… fosse stato qualche anno fa, io avrei fatto di tutto per acciuffarlo e tu saresti diventato matto per trattenermi.
Ora invece ci limitiamo a guardare i cuccioli e li lasciamo in pace. Non abbiamo le forze per affrontarli nemmeno per finta. E abbiamo la saggezza necessaria per lasciarli vivere il loro gioco in pace.
tu dici sempre che la natura è uno spettacolo, perciò io vedo i colori con i tuoi occhi.
Il parco è un tripudio di colori. Non distinguo molte cose, la vista ormai è quella che è. Però i colori li vedo. Non è vero che noi cani non li percepiamo, cioè, è vero sì e no. Io so che in questa stagione, quando cadono le foglie, tu dici sempre che la natura è uno spettacolo, perciò io vedo i colori con i tuoi occhi. Mi fido di quello che dici. Mi sono sempre fidato, fin da quando mi hai raccolto dal cassonetto della spazzatura. Ero un cosino nudo e tremante, non avevo ancora aperto gli occhi, ma qualcuno mi aveva gettato via come un giocattolo rotto.
Tu hai sentito il mio lamento, ormai prossimo a spegnersi, e mi hai raccolto. Non ti vedevo, ho sentito solo il calore della tua mano già rugosa, così grande che ci stavo dentro tutto. Poi ho udito la tua voce. E da quel momento tu sei stato mio padre e mia madre, ossia tutto il mondo. Il mio branco.
Mi sono fidato di te perché tu mi hai fatto diventare grande e hai diviso con me la tua solitudine. Senza domande, senza chiedere niente se non di ascoltarti, farti compagnia, passeggiare insieme. Tutte cose che non hanno richiesto alcuno sforzo da parte mia. Le ho fatte con quello che tu chiami Amore. Sì, quella cosa per cui si cerca il bene dell’altro senza contropartita, senza interesse.
Eri già anziano, credo, quando mi hai trovato. Vivevi solo, non avevi famiglia. Sono stato io la tua famiglia. Abbiamo vissuto insieme ogni momento in questi anni. Quanti autunni sono passati? Io non so contare, dimmelo tu. E quanti inverni? Quante estati?
da quel momento tu sei stato mio padre e mia madre, ossia tutto il mondo.
Ogni giorno di ogni stagione ci ha visto uscire insieme. Con la pioggia, la nebbia, pure con la neve. Che bello affondare nello strato di neve fresca! Tu arrancavi, ma non ti arrendevi. Mi gettavi palle di neve che io afferravo al volo con i denti e facevo a pezzi, perché mi piaceva il senso di freddo in bocca. Ora denti non ne ho più, ma non ne avrei bisogno per disfare una palla di neve. È che non ce la farei proprio a prenderla al volo, piuttosto. E il freddo non mi piace più un granché, mi entra nelle ossa e mi fa zoppicare.
Del resto anche tu rischieresti di scivolare sul ghiaccio e di romperti una gamba. Non è che le tue ossa siano più forti delle mie, vero? E se tu ti rompi ti portano in ospedale e io dovrei ancora una volta cercarti a naso per non lasciarti, e non restare solo.
Ti ricordi quella volta che l’ho fatto?
Ti avevano portato via in ambulanza perché non ti eri sentito bene. Ero arrabbiato perché ti allontanavano da me, non volevo che quegli uomini ti prendessero, gli abbaiavo contro e ringhiavo. Tu mi hai calmato, anche se faticavi a parlare, mi hai raccomandato alla vicina di casa, hai chiuso gli occhi e ti sei lasciato mettere in barella. Io lì per lì ero stato buono, ma avevo memorizzato l’odore dell’ambulanza e mentre la vicina si girava a fare qualcosa mi sono messo a correre. Ho seguito il mezzo nel traffico cittadino, schivando le auto e tutto il resto. Arrivati in ospedale l’ambulanza era lì, ma tu non c’eri. Il tuo odore però sì. Lo conosco a memoria, non posso sbagliarmi. E fra un pungente tanfo di medicinali e disinfettanti l’ho individuato e l’ho seguito. Fino ad arrivare al tuo letto. Non ti dico che codazzo di inseguitori avevo dietro… tutti allarmatissimi di avere un cane in ospedale! E che sarà mai! Non avevo la rabbia e neanche le pulci, io volevo solo ritrovarti!
Se avessi potuto ridere, ecco, lo avrei fatto, perché era davvero comico correre a perdifiato scivolando lungo i corridoi immacolati con sempre più gente alle spalle che non riusciva a prendermi. Ma i cani non ridono, vero?
Quando ho trovato la tua stanza sono entrato. Ho cercato la tua mano che penzolava dal letto e l’ho leccata, nonostante il tubo che ne veniva fuori. Ricordo ancora che hai aperto gli occhi e il tuo viso pallido si è colorato di gioia! Hai cominciato a piangere, ma io sapevo che eri felice di vedermi. Tutti quelli lì intorno non hanno più avuto il coraggio di dire qualcosa e nemmeno di intervenire. Sapevano già che tu eri un uomo solo e non ci voleva tutta l’intelligenza umana per capire che io ero l’unico che poteva starti vicino e aiutarti a guarire.
Che bel ricordo! Alla fine mi hanno lasciato lì con te per tutto il tempo, a dispetto delle regole dell’ospedale. Dovrebbero concederlo a tutti gli umani che hanno un amico non umano. L’amicizia vale più dei farmaci, credimi. Del resto tu sei guarito prestissimo e siamo tornati insieme a casa felici.
Che ne dici, rientriamo? È già il tramonto e il caldo dell’estate è solo un altro dei ricordi da aggiungere a quelli che già condividiamo io e te.
Strattono leggermente il guinzaglio e ti riscuoti da quello che mi è parso un sonnellino. Mi gratti la testa, dici che ho ragione, è meglio se ce ne andiamo al calduccio e a fatica ti alzi. Sento il rumore di ossa vecchie che scricchiolano, ma non so bene se sono le tue o le mie. Forse sono le nostre. Non tirare il guinzaglio amico mio, lo sai che non serve. Copriti bene, piuttosto, tu che puoi, che comincia a fare fresco.
Abbiamo davvero tanto in comune. Tutti questi anni insieme han fatto sì che ci somigliassimo. E sai una cosa? Che nessuno venga a dire che tu sei solo come un cane, o che io sono solo un cane. Noi siamo un branco. Siamo una famiglia.