Quella volta che feci la visita per il militare
Me la ritrovo sul tavolo, un sabato mattina. Il postino è passato di buon’ora o più verosimilmente io sono arrivato un tantino lungo all’appuntamento col caffèlatte. Fatto sta che accanto alla tazza mi trovo una lettera marrone chiaro. Mi stropiccio gli occhi, aguzzo la vista e mi vedo una decina di timbri, un paio di francobolli e l’inesorabile intestazione “Comando militare regionale Emilia-Romagna.” A casa mia una lettera accanto alla tazza significa: “qualcosa d’importante”. Immagino mia madre sistemarla a mo’ di centrino e pensare con tanto di sorriso amaro “Essì, s’è fatto proprio grande.” Tasto le parti basse. Qualcuno è già sull’attenti o più probabilmente lo era da un po’. Ma stai a riposo, va là, gli faccio io.
Tutto sa di vecchio nella caserma di Bologna. Gli intonaci cedono, i muri inumidiscono, le finestre spifferano, i carabinieri ingrigiscono, i piccioni hanno la testa bianca e il collo spennato. Un paio di cortili bigi comunicanti, stanze tetre più consone all’ospedale psichiatrico che alla caserma. Del resto tutto ciò sta finendo. Ancora un paio d’anni e la grande coscrizione terminerà. Io sono classe 82. La sera prima di partire ho detto ad un mio amico: che sfiga. Lui mi ha fatto: io sono del 1985 e la visita di leva non la farò. Che culo. Farabutto.
I ferraresi giocano a briscola e rinforzano i carichi di colorate bestemmie. Accanto a loro due romagnoli parlano di camion e zoccole. A loro dire il rapporto qualità/prezzo di Imola non è riscontrabile in nessuna piazza della Via Emilia. I reggiani guardano in cagnesco i modenesi, che a loro volta paiono schifare i bolognesi. Mi gratto la peluria sul mento e cerco tra i miei camerati. Il posto non pare ostile, ma necessito di un compagno di avventura. Due giorni sono lunghi. Eccolo lì, il mio tipo. Scapigliato, basette lunghe, viso allampanato, cuffie nelle
E’ come se la nostra vita fosse compressa in una stanza. Ma riportati all’aria aperta, questi rapporti svaniscono, si dissolvono. Ciò che rimane è la sensazione di essersi detti addio ancor prima di ciao.
Militari paraculati girano per le stanze con le mani ingombre di fogli e gli occhi della strafottenza di chi vorrebbe incutere timore alle nuove leve. Ma ben presto si stufano di recitare la parte del nonno e si ammorbidiscono. Alcuni fumano erba e perfino offrono. Se non hai questa, dicono, qui non ti passa più. Sempre meglio che accamparsi su un monte al freddo e al gelo come Gesù bambino e prendere ordini da un Sergente frustrato come Re Erode, penso io. Ma me la tengo per me. Anzi, la dico al mio amico ravennate. Che accondiscende.
La psicologa ha i capelli lunghi e grigi, gli occhi spenti e una collana di pietre con cui gioca per tutto il tempo della mia visita. Non mi chiede se mi piacciono i fiori, ma insiste a chiedermi se mi faccio le canne. Penso abbia scommesso grosso sulla mia positività al THC e non molla la presa. Arriva a sostenere che non c’è nulla di male. Eddai, una, anche una sola l’avrai fumata. La guardo negli occhi e telepaticamente la informo: mai quanto te, cara la mia psicologa a metà tra Patti Smith e Nilde Iotti. Alla fine molla, ma mi rifila un 2 in psiche ( i voti andavano tra 1, massimo, e 4 ). Non potrò fare domanda nella Folgore o nei Marò, quindi. Accidenti.
Tutti vi avranno parlato del fatidico momento in cui un attempato Dottore fa calare le mutande e soppesa i gioielli del futuro eroe della patria. L’imbarazzo, credetemi, non sta tanto nel dovere mostrare gli attributi ad un Dottore che ne ha visti più che l’orinatoio della stazione di Bologna Centrale. Il problema sono i tuoi stessi camerati. Si sta tutti in fila davanti a questi quattro Dottori e quattro alla volta si fa la visita. Così, davanti a tutti. Non che gli altri vedano tutto, intendiamoci, ma calare le mutande in pubblico è un gesto degradante, umiliante. Si vorrebbe essere veloci con quella cintura, sicuri con quegli slip e invece si finisce per essere goffi, legnosi nei movimenti. E quella testa bassa, simbolo di virilità calpestata. Finito tutto ci vuole una sigaretta per stemperare. Il ravennate mi fa: ci vorrebbero dottoresse donne. Ecco. Io annuisco ammiccando e penso alla scena. In verità sarebbe anche più imbarazzante, ma nella fantasia si sfiora la pornografia. Fumiamo assorti in pruriginosi pensieri. Il fumo si propaga dalla bocca, le luci rosse dalle nostre orecchie.
E così finisce la mia due giorni da coscritto. Idoneo. Anni dopo avrei ricordato il tutto come uno dei pochi colloqui positivi della mia esistenza. Va peggio al mio amico ravennate, giudicato revedibile e quindi costretto a tornare l’anno seguente. Per la legge del contrappasso accennata poc’anzi, spero abbia avuto più fortuna nel lavoro. Perché al di là dei proclami di imperitura amicizia, non l’ho più sentito. Nella vita ci sono biosistemi temporanei in cui le persone si legano un po’ per necessita, un po’ per attitudini. Sono sistemi chiusi dove i rapporti assurgono una valenza più forte che nella realtà. E’ come se la nostra vita fosse compressa in una stanza. Ma riportati all’aria aperta, questi rapporti svaniscono, si dissolvono. Ciò che rimane è la sensazione di essersi detti addio ancor prima di ciao. E già superata la stazione di Modena il ricordo dell’amico ravennate affievolisce. Scendo a Parma e sono già consapevole che non ci vedrà mai più.
Meglio pensare ad altro. Ancora c’è in lizza il posto di Dottoressa della visita di leva. Cammino verso casa e schiero le partecipanti in camice bianco, collant neri e tacchi vertiginosi. Un paio di professoresse, due o tre ex compagne di classe, la vicina. Ma tanto so già che a vincere sarà la mamma di quel farabutto del 1985.