La città del piacere, il sapore dei colori
Non sono molte le case editrici alla ricerca di testi arabi contemporanei di un certo spessore da tradurre in italiano. Il Sirente però, con la sua collana “AltriArabi” prosegue coraggioso nella sua impresa ed ecco che ci propone un meraviglioso Ezzat El Kamhawi con il suo “La città del piacere”. Come dire, quando la poesia dal sapore epico e spirituale racconta l’alienazione del mondo orientale contemporaneo.
Cominciamo con una citazione:
“In quel momento, la dea del piacere si manifesterà a te sulla barca del cielo. Tra le sue gambe, che scendono dalla cima del suo monte, l’immensa mezzaluna. Ti chiederai, in effetti, con angoscia profonda: cos’è che qui spegne lo spirito e alimenta la passione?! E in questa città altera non troverai altro che il suo supremo silenzio e la tua immensa pazzia.
[…]
Le porte automatiche si aprono meccanicamente: frutti dell’estate e dell’inverno pronti prima che arrivi l’acquolina alla bocca, miele filtrato e latte. E poi ancora carne di cavallo, cervo, cammello e maiale, e vini, quelli più pregiati. Bevono e mangiano tutto ciò e la quantità non diminuisce, se non nella misura in cui un cucchiaino potrebbe svuotare un fiume.
Sono stati plasmati per praticare il piacere e si dice che posseggano numerose copie di corpi. In tal modo, ogni qual volta la debolezza ne colpisce uno, possono usarne un altro. Un inviato di una rete televisiva è riuscito ad intrufolarsi in uno dei palazzi della città e ha registrato un intero nastro con una apposita telecamera, riuscendo ad osservare la combustione del corpi e la creazione di altri corpi dalle loro ceneri, come un germoglio che nasce dal fango.”
Ciò che trovo principale nella prosa di El Kamhawi è l‘ unione di suggestioni epiche, poetiche, spirituali, trascendenti ad una descrizione simbolica e sottilmente critica della realtà del mondo arabo contemporaneo, rappresentato sotto la falsa apparenza di una città lontana e remota. Quello che l’autore descrive sono le stressate vite di oggi, il lusso sfrenato e i contrasti quotidiani, gli uomini e le donne che sfilano paralleli incrociandosi solo di rado, i silenzi ed i bagliori nell’oscurità.
Basti vedere con quanta poesia egli narri il momento ambiguo in cui alle donne si gettano bigliettini di carta per tentare approcci clandestini:
“Una verità ti frusterà: le donne girano in stormi, imbalsamate in un profumo lascivo, talmente forte che non ne sentirai più l’odore, ma solo il ronzio quando emana dai loro corpi, e lo vedrai condensarsi, alla fine, e formare una tenda spessa che ricopre la città molestando gli spiriti delle immagini nella loro ascesa.
E supponiamo che in quel momento ti troverai nella baraonda: vedrai auto da corsa fermarsi all’improvviso, per lanciare in aria stormi di bigliettini su stormi di donne, vedrai i bigliettini scendere velocemente e posarsi sui vestiti, e le mani tendersi per afferrarli, tastarli con impeto e leggerne furtivamente i numeri. E non passerà molto tempo che vedrai le strade inghiottire sia le persone reali che le immagini, e le macchine, che correvano veloci, riunirsi nella piazza buia, dietro “al-Mahia”, ferme con le teste l’una accanto all’altra, come un gregge di pecore. I telefoni cellulari inizieranno a ricevere chiamate delle loro prede – le donne che avevano preso i bigliettini svolazzanti”.
Il tu a cui l’autore si rivolge è inghiottito nel vortice evocato, non gli è risparmiato nulla: i riferimenti a leggende arabe, a quelle indiane, la confusione sfumata e voluta fra mito e realtà, la leggenda, l’ostentazione forzata e grossolana di ricchezze materiali, i palazzi, lo shopping trasfigurato, il divino che compare poi scompare, spazzato dall’aria condizionata e da scale mobili inframmezzate dal ritorno improvviso ad attimi di seduzione, mistificazione, a miti di latte e miele, di divinità invisibili e onnipotenti, di popoli asserviti, Eldorado lontani, impossibili, invisibili eppure concretissimi e presenti nelle città del Golfo.
La traduzione di Isadora D’Aimmo ben rende la complessità del romanzo di Ezzat el Kamhawi; meraviglia il lettore confondendolo, lasciandolo a cavallo fra mito e realtà. La poetica esotica, orientaleggiante non annoia perché non è inventata, non è cliché, non si rivela mai anacronismo: dietro la poesia sta la concreta alienazione contemporanea delle città orientali.
Dopo un assaggio di “La città del piacere”, è il momento di parlare di altri assaggi e di altri piaceri. La ricetta di oggi è:
Chiamiamolo riso creolo
Ingredienti
- Riso basmati
- Fagioli neri
- Mango
- Coriandolo
- Peperoni gialli e rossi
- Peperoncino fresco piccante
- Cipollina o porro
- Tabasco
- Olio, sale, pepe
Niente di più semplice: lessare il riso, lessare i fagioli dopo averli lasciati a mollo, affettare il mango, i peperoni e il peperoncino. Tagliare rondelle di porro o cipollina e sminuzzare il coriandolo. Mischiare poi il tutto unendo olio, sale, pepe e qualche goccia di tabasco.
È tutto, buona domenica.