L’uomo col retino e le mosche della meraviglia
“La televisione ci ha insegnato a vedere la natura come se fosse un film, come qualcosa di immediatamente comprensibile e accessibile, ma è soltanto un’illusione. Nella realtà non c’è la voce dello speaker a spiegare. Quello che in superficie si presenta come arte magnifica e musica dolcissima non è altro, per il non iniziato, che un’impenetrabile massa di vocaboli appartenenti a una lingua straniera.”
Fredrik Sjöberg, entomologo e scrittore, prova ad iniziarci al suo mondo per renderlo un po’ meno impenetrabile. Lo fa nel modo più umile e diretto: raccontando la sua storia. Eppure “L’arte di collezionare mosche” (Iperborea 2015) non è soltanto un romanzo autobiografico: come spiega Fulvio Ferrari nella postfazione, è anche un insieme di biografie labirintico in cui il lettore si disorienta piacevolmente.
Primo fra tutti, lo spettro di René Malaise, cacciatore di mosche solitario, rimasto noto per l’invenzione della trappola che porta il suo nome. “C’era in lui qualcosa di sconfinato”, afferma Sjöberg, appassionato e fedele al suo mentore ideale: per tutta la vita, parallelamente alla caccia munito di retino, lo vediamo ripercorrere le tracce dello scienziato. C’è poi la storia di Ester Blenda, sua compagna, e soprattutto tanti libri.
È però interessante notare come in apertura il romanzo riporti l’esperienza di Sjöberg come trovarobe per un teatro, spiegando così questa prima avventura:
“Tutti quanti hanno il bisogno, di tanto in tanto, di lanciarci alla cieca in qualcosa per evitare di diventare una copia conforme alle aspettative del nostro ambiente, forse anche per trovare il coraggio di ricordare qualcuno di quei grandi pensieri arditi che spingono un bambino ad alzarsi in piena notte a scrivere con il batticuore una promessa segreta che riguarda la propria vita”
Quel batticuore non abbandonerà l’entomologo-scrittore, che nell’isola di Runmarö sa stupirsi di mille bellezze. Sebbene la circolarità isolata di Runmarö sia per lui certezza rassicurante, garanzia di un limite tangibile costante, quell’isola contiene mille mondi, mille linguaggi da decifrare.
“Consideriamo dunque per un momento la leggibilità del paesaggio: come la natura possa essere capita più o meno come la letteratura, o percepita allo stesso modo dell’arte e della musica. È sempre questione di conoscenze linguistiche.”
Non soltanto la scienza parla un linguaggio a sé, secondo Sjöberg, non soltanto gli insetti, non le mosche tutte, ma addirittura i sirfidi sono un codice da studiare per poter comunicare. Spinto dall’amore per l’apprendimento di questa nuova lingua, l’entomologo scava nel dettaglio, pochi metri quadri diventano per lui un universo in cui la gioia più grande non è scoprire specie nuove ma trovare esemplari di specie avvistate nel passato e poi mai più riviste.
La meraviglia della scoperta e dei ritrovamenti regala continuamente all’ironico scrittore nuovo materiale. E sta proprio nella meraviglia, come già ha fatto notare Christian Raimo, la chiave per leggere “L’arte di collezionare mosche”.
Basti leggere la spontaneità quasi bambina ma per nulla naif che porta l’autore a scrivere:
“Quando si dischiudono i fiori dell’acero, a metà maggio, tutte le pene dell’inverno sono ormai dimenticate.
Bastano i colori a mettermi di buonumore.”
La meraviglia: tanta è la sua semplicità, quanto più è facile perderla. E lo scrittore, nonostante generose doti di ironia e di autoironia che spiccano fra le pagine, ne sembra più volte consapevole ed amareggiato.
“È questo che capita quando si viaggia per avere qualcosa da raccontare. Si perde la capacità di vedere.”
C’è poi la condanna al pregiudizio che grava sulla ricerca attorno a oggetti che risultano ad un pubblico medio pressoché inutili.
“Non si può mai sapere a priori quali conoscenze, per quanto apparentemente insulse, possano un giorno rivelarsi utili.”
La critica alla rapidità alienante del contemporaneo:
“E siccome i pifferi alla cui musica balliamo sono intagliati da persone che amano la velocità e che sono capaci di tenere sotto controllo la sovrabbondanza, noi perdiamo il nostro equilibrio e sprofondiamo in una cupa sensazione di inadeguatezza. In parte è colpa di un meschino spirito mercantile, ma sicuramente non è l’unico responsabile. Anche la vita culturale è un centro commerciale, e così la scienza, intravista da lontano. Genialità e rapidità alla rinfusa.”
Ed infine un nostalgico paragone con i tempi di René Malaise, in cui i finanziamenti fioccavano insieme ad interviste radio e addirittura poesie satiriche su di lui pubblicate sui settimanali.
“Di spedizioni scientifiche alla ricerca di insetti senza nome ce ne sono state ancora molte dopo di allora, ma la gloria e gli onori non sono mai tornati a essere quelli di un tempo. Viaggi che prima della guerra suscitavano l’interesse generale avvengono ora nel silenzio. Gli avventurieri non fanno nemmeno più film, ormai, si accontentano di vivere le loro avventure, come se l’Himalaya non fosse altro che una corsa a ostacoli per ambiziosi, cui non verrebbe mai in mente di prendere la tortuosa deviazione per l’incommensurabile tassonomia dei tentredinidi.”
Consapevole ma non per questo disilluso, Sjöberg arriva in Italia con un racconto che parla di mosche ma anche di nostalgia, di altri libri, di altre vite, del volontario esilio in un’isola remota. Paragona la sua vita a quella, narrata parallelamente, del suo Virgilio scientifico, René Malaise. Autobiografia ma anche testimonianza di uomo di scienza, forse in questo senso molto più efficace di altre iniziative di comunicazione scientifica. Il racconto di Sjöberg non si limita infatti alla narrazione oggettiva del suo percorso professionale, ma lo arricchisce di particolari che spingono il lettore avanti in questa lettura accompagnata dalla presenza costante dei sirfidi che, da esseri ignoti, si fanno per qualche giorno i nostri compagni di viaggio a Runmarö.