Il momento è catartico
Le nostre giornate sono scandite da azioni che facciamo automaticamente. Lavoriamo, parliamo con la gente, rientriamo a casa e c’è qualcuno che ci aspetta (fosse anche la lavatrice).
Ma, come diceva un comico, a un certo punto il momento è catartico. Stai facendo una di quelle cose e improvvisamente sei fuori dal tuo corpo. Ti guardi mentre agisci e pensi. Cosa di preciso… beh, dipende.
Potrebbe essere il momento in cui stai camminando con i tacchi e per salire su un marciapiede ti si flette la caviglia, e tu esci dal tuo corpo più che altro per goderti la scena. E cominci a pensare anche alle povere caviglie. Ma quanto sono pieghevoli? A quante storte possono sopravvivere? C’è un numero massimo di volte in cui si può prendere male un marciapiede con i tacchi senza crollare a terra e spaccarsi qualcosa? E io, quante me ne sono giocate già?
Oppure, ad esempio, potrebbe essere la giornata in cui arriva l’Ups a casa. Sapete no, il corriere che trasporta pacchi in tutto il mondo in condizioni estreme. E quindi tu sei in camera tua a fare quello che odi: il cambio di stagione. Insieme a un’altra cosa che odi: il riempimento della valigia. Che non è una valigia normale. È la valigia, quella dentro cui ci sarà la tua vita per i prossimi, non so, quattro mesi?
Insomma ero immersa fino ai gomiti in magliettine estivissime, magliette primaverili, maglioncini autunnali e maglioni invernali. Perché se io non ho mai saputo niente di Vienna, sul tempo che ci fa non sanno niente manco le previsioni meteo.
Per prepararmi all’impresa, ho scelto una compilation a caso su Spotify, perché non posso pulire casa senza un sottofondo che mi aiuti a non pensare al fatto che sto pulendo casa. E così le scatole sul letto, vestiti in ogni dove, io e la musica. Tre ore di passione fino alla fase dello scotch intorno alle scatole e del sali e scendi dalla bilancia (ahimé) per controllare che il peso sia giusto. Almeno il loro.
Dopo essermi seduta sulla valigia per assistere la zip nel suo duro lavoro, finalmente, giro una sigaretta, mi butto sul divano, finisce una canzone e parte questa:
E il momento è davvero catartico. Se non la state già ascoltando, vi invito a cominciare. Perché dovete immaginarmi stanca, sudata e arresa, che accendo una sigaretta e lei inizia: “She’ll be gone soon” (Lei partirà presto). Io alzo lo sguardo sugli scatoloni all’interno dei quali ho chiuso tutti gli oggetti che porterò con me nel secondo viaggio sola andata per una terra straniera. Mettete play e immaginate che quegli oggetti al buio sono tutto quello che avrete della stanza che vi ha visto diventare ciò che siete. Stanno per prendere il volo. E tutto sta per cambiare. Non importa se per uno o sei mesi, un anno o tre.
Così: puf, sono fuori dal mio corpo. E mi vedo sprofondata in un cuscino, con uno sguardo un po’ strano e, dietro di me, c’è la mia parete arancione. Dipinta con tanto olio di gomito insieme a mamma e papà quando ancora era tutto vuoto, qui, e noi a lavorare per farla diventare sempre più nostra.
Nell’angolo avevamo montato un lettore cd degli anni ’90, credo, di quelli portatili che sembravano piccole astronavi ciccione. Mamma canticchiava. Papà scherzava. Io guardavo quell’arancione e masticavo la felicità. E non potevo sapere quanta era, ancora.
Mamma canticchiava. Papà scherzava. Io guardavo quell’arancione e masticavo la felicità. E non potevo sapere quanta era, ancora.
Sono pronta? Perché le cose cambiano, e non sai mai come e dove vanno quando cominciano a diventare qualcos’altro.
Io ora mi vedo da fuori e nel mio sguardo c’è quel minestrone di emozioni che si portano dietro gli avvenimenti improvvisi. Quel misto di ansia, paura, eccitazione, voglia di partire domani, voglia di tornare ieri, desiderio viscerale di sapere che succederà. Sono un po’ nervosa, è vero. Vista da quassù però, vicino ai miei oggetti pronti a partire oggi e arrivare domani e non tornare mai, sono anche fiera come una leonessa.
Piena di quella vita che ti danno la paura, l’ansia, l’eccitazione, e la consapevolezza. Quella che non immaginavo neanche, a gennaio, mentre salutavo papà all’aeroporto con le lacrime agli occhi, con in mano il mio biglietto di sola andata per Londra. Sono fiera anche e soprattutto perché adesso so che cosa si prova quando ti prende la voglia di tornare.
Andrà tutto bene, mi dico. La malinconia è un ottimo punto di partenza.
Nasce da qualcosa che non vuoi (o non hai voluto) abbandonare. Significa avere un posto a cui appartenere. E degli oggetti per ricordare. E avere qualcosa da cui scappare per raggiungere altro, di più, ancora meglio. È la malinconia che ti dà la fierezza di riconoscere il momento giusto.
La canzone finisce. Torno in me. Il corriere starà arrivando e… qui è tutto pronto.