Di Aperol, salite, cocco, vita e altre amenità
Me ne stavo seduto con il palmo della mano aderente al tavolino del bar, la schiena allo schienale, lo schienale al muro di cinta, la caviglia sinistra sopra il ginocchio destro, una sigaretta spenta in bocca con il filtro ormai fradicio a tal punto da parermi esso stesso l’origine della saliva che mi infastidiva le labbra. Ma non me ne fregava poi molto. Osservavo il ghiaccio liquefarsi e formare dense correnti bianche nel rubicondo Aperol. Regnava in quel bicchiere una logica primordiale, rivoluzionaria e al tempo stesso logica, regolata da formule chimiche e fisiche di cui non sapevo una mazza e ad ogni modo non me ne poteva fregare di meno.
Accanto a me il mio compare: schiena su diverso schienale ma schienale su identico muro, se ne stava con le mani cinte attorno ad una bottiglia di Tuborg da 33 cl posizionata sull’inguine quasi a voler creare un’improbabile nonché eccessiva estensione del tanto caro membro. Gli occhi serrati davanti a sé e quindi dritti verso la catena degli appennini, la bocca socchiusa per permettere qualche funzione vitale e fornire allo stesso tempo il necessario passaggio a insetti e aracnidi vari. Ed ecco che vedendo un tale scempio di neuroni subito mi assalì la voglia di dare una speranza alle sinapsi, ormai ridotte allo stremo, del mio compagno di aperitivo.
“Ma mi dici che cazzo stai a guardare? Son dieci minuti che fissi il niente” gli feci. E costui, scuotendo qualche ardito neurone duro a morire mi rispose alquanto francamente “le montagne”.
Ora, la conversazione poteva finire tranquillamente così. Io avrei impugnato la cannuccia e mi sarei divertito a scompigliare l’ordine cosmico del bicchiere picchiettando sul ghiaccio. E da buon Re del mondo avrei quindi gongolato nell’osservare lo sconquasso provocato dal mio sbalzo d’umore, mentre il mio amico avrebbe continuato a sterminare la popolazione del suo misero pianeta grigio. Ma fu proprio lui a rilanciare la tenzone “Cosa c’è di là dalle montagne?” E io, fregandomene di comuni, provincie e ottusità catastali, tra il serio e il faceto buttai lì “Il futuro”.
“E quindi?” ribatté quello, evidentemente anch’esso poco interessato all’aspetto geografico della questione.
Io avrei impugnato la cannuccia e mi sarei divertito a scompigliare l’ordine cosmico del bicchiere picchiettando sul ghiaccio. E da buon Re del mondo avrei quindi gongolato
“E quindi è un casino.” rispondo “C’è sempre un sacco di strada da fare. La vita è tutta in salita.” Tronfio della mia filosofia spicciola appoggiai il piede sinistro a terra e riunii le braccia al ventre.
Quello si grattò il mento, staccò la protesi di Tuborg dall’inguine, rifletté un poco e fece “E, ma prima o poi in cima si arriva. Poi che si fa, una partita a briscola?”
“No, niente, non ci si arriva mai. E’ un’illusione. Toglitelo dalla testa. Si sale. Chi si ferma è fottuto. Ci sono le scorciatoie, ma portano nei burroni. Ci sono le nuvole che rendono tutto più difficile. Piove. Nevica. Si scivola, torna indietro. Tocca smadonnare per fare anche solo due metri. E poi magari vedi gli altri, quelli stronzi, anzi proprio i più stronzi, infami, bastardi che vanno su in funivia. E ti fanno pure le pernacchie. Prrr. E tu gli tiri le sassate. Ma non li prendi mai. Così sali. Sali. E sali.”
“E ma se è ‘na vitaccia di merda a quella maniera lì tanto vale fermarsi sotto un castagno, no? Insomma, come la descrivi te è proprio una merdaccia. No, no, non ti seguo proprio. Tu dici delle cazzate così, tanto per dire.”
Scossi la testa, la fronte corrucciata, mi voltai verso di lui. In un gran dimenar di avambracci gliela spiegai senza remore “Sei tu che non capisci una fava. Se non sali non arriverai a nulla. Cosa credi, che gli stronzi in funivia possano gustarsi l’acqua fresca dei ruscelli? O pensi che stando seduti sotto un castagno si possa ottenere altro che un paio di scagazzate in testa? Il bello sta proprio nella salita. Più è ripida e più i paesaggi saranno poi belli, i panorami mozzafiato, gli imprevisti sorprendenti. Insomma, il gusto sta anche nel voltarsi indietro e guardare quanta strada si è fatto. Un paio di mesi fa ero laggiù dove le rocce sono ripide e aguzze e il vento mi sferzava le palle e ora il sole mi accarezza e mi godo un attimo di relax col culo appoggiato sulla soffice erba. E mi compiaccio.”
E quasi mi pareva di aver fatto un così bel discorso da meritare un applauso. E forse il mio compare mi avrebbe tributato un non so che se nel frattempo un’avvenente signorina non fosse uscita dal bar lasciando una scia di cocco nelle mie narici e un mandolino di tutto rispetto negli occhi del mio compare.
“Che chiappe” esclamò di gusto.
“Già” risposi, e annuendo accesi la sigaretta, ormai del tutto intrisa di saliva, salite e di quel cocco che ottenebrava la mente. Le montagne, le nuvole, le parole, gli amici, le donne amate, quelle sognate e quelle solamente annusate, il passato in basso con la zavorra dei ricordi, il futuro lassù in alto, sfuggevole. Gli imprevisti. Il ghiaccio fuso nell’Aperol. Il formicolio alle gambe. Le vie contorte del fumo nell’aria. La vita.
Alla fine, io e il mio compare ci eravamo trovati sulle stesse corde. Avrei voluto dirgli che l’amicizia è suonare la stessa nota con strumenti diversi. Ma non ce n’era bisogno. Così ordinai altre due bevute, mentre le narici setacciavano l’aria in cerca delle ultime tracce di cocco.