Al family day io non c’ero
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Ho trentasei anni, sono sposata da dieci, due figli, Nicolò di otto e Mia di quattro. Sono con mio marito dal ventisei aprile millenovecentonovantasette. Mi vengono i brividi solo a scrivere millenovecento. Praticamente una vita. Forse una vita no, ma di sicuro mezza. Mi sono sposata in Chiesa e ho battezzato i miei figli. Praticamente una famiglia normale. Con i suoi alti e i suoi bassi, i periodi belli e quelli bui, problemi e gioie da condividere. Eppure non ho sentito assolutamente l’esigenza di marciare assieme ad un milione di persone che hanno sfilato durante il family day per difendere (?) la propria famiglia e andar di contro al ddl Crinnà. Un mi-li-o-ne di persone erano lì per far scudo sui propri figli e il proprio nucleo. Sinceramente nessun omosessuale e ne ho conosciuti e frequentati, ha mai molestato me, mio marito o uno dei miei bambini. Nessun omosessuale ha messo a rischio la mia famiglia. Il ddl che magari la maggior parte di quelli che hanno sfilato nemmeno si è preso la briga di leggere, riassumendo a grandi linee chiede il riconoscimento dei diritti sociali senza un preciso richiamo all’istituzione del matrimonio, propone inoltre la stepchild adoption ovvero la possibilità di adottare un bambino se esso sia figlio biologico di almeno uno dei due.
Nel riconoscimento dei diritti sociali ci sono ad esempio quelli di assistenza sanitaria e carceraria. Insomma se io amo una persona alla quale viene un ictus e a quest’ultimo si deve cambiare il pannolone, vorrei come gesto carino potergli dimostrare amore incondizionato anche perché l’ho scelto sulla terra tra tanti. In salute ed in malattia, per dirla alla vecchia maniera. E poi c’è la storia della teoria gender. Immagino che sempre la maggior parte del milione di teste abbia immaginato che Vladimir Luxuria, però quella dei tempi d’oro della Mucca Assassina, si presentasse alla scuola dell’infanzia e primaria a dare lezioni di sessuologia, distribuendo profilattici al cioccolato come se piovesse. Ricordo che da piccolo mio figlio si innamorò, in un negozio di giocattoli di un bambolotto e che fino a l’anno scorso da grande sognava di diventare come Michael Jackson. Gli ho comprato il bambolotto e lo facevo vestire da Michael. Poi un giorno mi ha detto che quando vedeva la sua fidanzatina provava qualcosa molto simile allo stimolo di fare la pipì. Magari ci fosse qualcuno che a scuola spiegasse ai maschietti come lavare i piatti e a piegarsi i vestiti nell’armadio in modo da aiutare in casa, e alle femminucce che senza il rosa, le scarpe con i brillantini e le corone da principessa, si vive bene lo stesso. Magari a qualcuna di loro piacerebbe svitare un’automobilina e vedere com’è fatta al suo interno. Ma purtroppo viviamo in una società in cui AstroSamantha è stata derisa ed etichettata come quella idonea a fare le faccende domestiche nella navicella spaziale e che se solo ti chiami Ricky Martin sei un gay modello ed i tuoi bimbi sono due angioletti, perché Alfonso Signorini ti ha dedicato una copertina.
Ma tra la Cristoforetti e il macho dalla Vida Loca, c’è uno strato più cupo, gremito da ragazzini derisi e umiliati, presi in giro e mortificati per il loro essere diversi e di genitori che non sanno cosa fare per aiutarli. A me sinceramente quello che avviene nelle camere da letto altrui non interessa per niente. E non mi interessa nemmeno scrivere quanto amo mio marito o come sono belli e bravi i miei figli sui vari social network. Non mi interessa. Nè tantomeno temo che la mia famiglia sia minata, messa in pericolo, se il compagno di banco di mio figlio non ama giocare a Super Mario o se quando vado a cena c’è la mia amica con la sua ragazza. Pagano anche loro il conto e conversano amabilmente con tutti. La mia famiglia non è in pericolo. La mia famiglia non è da difendere. Nessuno vuol far del male alla mia famiglia. Spero vivamente che i mariti padri, gioiosi e fieri, che hanno sfilato camminando a testa alta per le vie di Roma non si ammazzino di porno appena la moglie è di là a stirare e che le mogli e madri siano d’esempio ai figli, ribellandosi a compagni violenti e non finché morte non ci separi. La famiglia del Mulino bianco lasciamola in TV, che sta bene lì dov’è.
Se siete amanti del Mulino provate le camille, che è meglio:
250 g di carote pulite e tritate
3 uova piccole
180g di zucchero a velo
200g di farina 00
120 g di mandorle pelate da ridurre in farina
100 g di succo d’arancia
una tazzina di succo di limone
80 g di olio di semi
1 bustina di lievito vanigliato
la buccia di arancia grattugiata, un pizzico di sale
Per prima cosa tritate le carote e premete le arance filtrando il succo.
Trasferite nel robot, assieme all’olio ed al succo d’arancia, le carote.
Cercate di ottenere una crema senza pezzi.
Montate con le fruste elettriche, le uova con lo zucchero vanigliato, e tritate finemente le mandorle.
Quando le uova saranno spumose, unite la farina di mandorle, la farina setacciata col lievito e la buccia d’arancia
Infine unite il composto di carote,olio e succo d’arancia, fatto in precedenza.
Mescolate e trasferite il tutto negli stampini, imburrati ed infarinati.
Riempiteli fino ad arrivare a un centimetro circa dal bordo. Infornate in forno preriscaldato a 180° per circa 30 minuti. Fate la prova stecchino perchè essendo molto umide potrebbero essere ancora non cotte.