Il mio nome è Opaco
Da oggi il mio nome sarà Opaco. Sono in fondo, a poppa, incastrato e piegato su me stesso. Credo che la mia schiena sia spezzata, non lo so di sicuro, non sono un medico, Ho un ragazzino di quindici anni che mi abbraccia le gambe, lo conosco, viaggiava solo, mi si è appiccicato addosso sin dai giorni d’attesa su quella terra di nessuno, divenuta terra di tutti noi per qualche tempo, senza bandiera, senza colore, senza storia. Un luogo degli apolidi, un posto da disperati con ancora in corpo milioni di speranze. Un posto che quando ci arrivi non riconosci, che ti respinge, che ti sputa in faccia il disprezzo. Nessun abbraccio, nessun sorriso di una faccia amica che ti dica Benvenuto. Da lì si passa solamente, la terra ti brucia sotto i piedi, ti sopporta giusto il tempo necessario e non smette un minuto di ricordarti che devi andartene, che non c’è posto per te, che non ti vuole.
Mi hanno parlato di fede, mi hanno detto di credere nell’incredibile, di avere certezza dell’esistenza di una dimensione celeste. Io di celeste conosco il mio cielo, che si perde sconfinato all’orizzonte, il mio cielo che scende, scende fino a toccare il giallo della sterpaglia. Ho sempre desiderato vivere lì in fondo, alla fine del cielo, in un altrove da scoprire
Le radici del grande albero le ho accarezzate tante volte, le voci del vento le ho ascoltate ogni notte, ma quello spirito di cui mi dicevano i preti non sono mai riuscito a vederlo. Mi hanno parlato di fede, mi hanno detto di credere nell’incredibile, di avere certezza dell’esistenza di una dimensione celeste. Io di celeste conosco il mio cielo, che si perde sconfinato all’orizzonte, il mio cielo che scende, scende fino a toccare il giallo della sterpaglia. Ho sempre desiderato vivere lì in fondo, alla fine del cielo, in un altrove da scoprire.
Quando le radici dell’albero sacro sono state usate come un comodo pisciatoio dalle milizie che iniziarono a calare sui villaggi, in cerca di donne da sventrare e bambini da schiavizzare, ho iniziato il mio cammino per arrivare dove il cielo tocca terra. Avevo immaginato un viaggio più breve, e forse solo in quel momento ho realizzato cosa significasse avere fede. Anche se ogni passo in avanti faceva arretrare la meta, non ho mai smesso di crederci, neppure quando la sete mi ha spaccato la bocca, neppure quando il sangue dei miei piedi si è mischiato alla strada che calpestavo. Ho camminato sotto il sole e sotto la luna, mi sono fermato a lavorare in cambio di cibo ed acqua ed un posto per dormire, nella stalla insieme alle bestie. Ogni passaggio di villaggio in villaggio, ogni stalla divenuta casa, sembrava un avvicinamento alla felicità, quella felicità che avrei voluto raccontare un giorno a chi fosse entrato nella mia nuova vita. Il puzzo della merda in quei posti di fortuna dove ho dormito, ora che ci penso, era il profumo dei fiori più odorosi rispetto a quello che sento adesso in questa stiva. Qui si sente l’odore della morte, e non basta tutta l’acqua del mare in cui siamo sospesi per portarla via. Mi dissero di entrare sotto, che tanto avremmo fatto a rotazione. Non ho mai avuto paura del buio, e sono sempre stato un ragazzo forte. Capii abbastanza alla svelta che dal piccolo spazio occupato non ci saremmo mai potuti spostare durante tutto il viaggio. Ne entravano troppi e i movimenti diventarono sempre più difficili.
In pochi attimi iniziammo a muoverci come impazziti, come quando sposti una pietra e scoperchi un formicaio. Qualcuno grattava lo scafo con le unghie fino a staccarsele, altri lo colpivano con la testa. Sentii presto il sapore del sangue di chi si feriva, avvertivo sul corpo i sussulti di morte di chi troppo incastrato dagli altri non poté che arrendersi in fretta
In pochi attimi iniziammo a muoverci come impazziti, come quando sposti una pietra e scoperchi un formicaio. Qualcuno grattava lo scafo con le unghie fino a staccarsele, altri lo colpivano con la testa. Sentii presto il sapore del sangue di chi si feriva, avvertivo sul corpo i sussulti di morte di chi troppo incastrato dagli altri non poté che arrendersi in fretta. Iniziai a tossire, ma più lo facevo e più perdevo fiato, provavo ad inalare ma entrava solo acqua nei polmoni. Mi scoppiava il cervello, mi scoppiavano le ossa, letteralmente. Non credevo che un essere umano in punto di morte avesse la forza di fare tanto male. Forse altri mi hanno spezzato la schiena proprio mentre morivano, in un ultimo atto d’amore, per portarmi con loro, per abbreviare la mia agonia. Non riuscivo a pensare, volevo solo scappare da quella prigione liquida, volevo che finisse, che si dissolvesse, ho spinto, urlato, mi facevano male gli occhi per come li tenevo spalancati. Ero incredulo, impotente, dolorante, ormai anche l’ultimo filo di luce era scomparso. Ancora attraverso l’acqua sentivo qualche lamento, sempre più lieve, eravamo una poltiglia di sangue, carne e merda, finché non ho avvertito più nulla, nessuna sensazione, solo un senso di compimento.
Il mio tempo è finito ed ora vivo nell’azzurro. Non è quello del cielo, ma quello del mare. Sono qui in un’enorme bara, insieme a tanti altri. Il tempo passa regalandoci nuovo spazio. I nostri corpi diventano sempre più sottili, ma non ho paura, sono sempre stato un ragazzo forte. Qui c’è pace e i pochi rumori sono naturali come quelli della mia foresta. Ho la schiena spezzata e le gambe nell’abbraccio di un quindicenne, che si allenta con il passare dei giorni. Ho un nome ma diventerà sempre più opaco fino a dissolversi man mano che il mio corpo scarnificato sarà solo un mucchio di segmenti di ossa in questo scrigno di poco valore. Per tanti ero nessuno ancor prima che i miei polmoni esplodessero, ma non potevo saperlo. Sono fiero del nome che porto, ha un bel suono, ma nessuno potrà sentirlo. Non ero nessuno e continuerò ad esserlo. Rimarrò solo uno dei frammenti di una notizia che per qualche giorno saturerà l’etere. Poi, il mio nome sarà per sempre Opaco.