Il rumore dell’assenza
Non è il rumore della presenza che mi disturba. Non il traffico, la radio ad alto volume, il vociare dei bambini. Niente di tutto questo. È il rumore dell’assenza che mi destabilizza. Non amo i cambiamenti, ho uno spirito di adattabilità tendente all’atrofico, sono molto abitudinaria. Ecco perché non amo troppo nemmeno le sorprese, nemmeno quelle belle. Il trascorrere del tempo è per me una condanna inesorabile che quotidianamente mi strappa un lembo di vissuto, lacerando l’arazzo degli affetti. Ed è proprio pensando a loro che mi sfugge il senso del tempo presente e mi perdo nei meandri di un passato disordinato, che si confonde, dove i ricordi si stemperano l’uno dentro l’altro. Sono da mia nonna e c’è il fuoco acceso. Odore di legna che arde e di detersivo per i piatti. Una piccola sagoma nera con grossi occhiali corre indaffarata da una parte all’altra della casa, poi in cortile, fino alla casetta dove mangiamo tutti nei giorni di festa. Ultima assenza che non vale meno delle altre solo perché si insinua nei miei pensieri a quattro zampe invece che a due.
Scivolo in un altro episodio. Gioco nel mio terrazzo con piccoli insetti che disegno e ritaglio da sola. Li faccio svolazzare tra le piante e il profumo delle violaciocche è devastante. Mia nonna Elisa si affaccia dal suo poggiolo che è un piano sopra il mio. Mi sorride con quella sua faccia bianca e tonda, i capelli candidi piegati a crocchia, la riga in mezzo e gli occhi piccoli e scintillanti che sembrano capocchie di spillo, come i miei e come quelli di mio figlio, anche se i nostri sono un po’ più grandi.
Silenzio. Altre assenze presenti nel mio quotidiano. La mia dolce Letizia. Donna bambina. Tenera, con i suoi sguardi di buffa minaccia, la sua malcelata gelosia se mangiavi un gelato senza offrire. I suoi lineamenti orientali e le mani piccole piccole, sempre con le unghie ben curate, perché lei ci teneva tantissimo. Sulle dita anelli d’oro, unico vezzo di una grande donna che non ha preso niente in questa vita, ma ha dato tanto. Se penso a un fiore che le si addica, penso senz’altro a un giglio. Bianco, candido. Puro come il suo animo. Questa è una delle assenze che fa più rumore. Bussa ai miei sogni parecchie volte e mi lascia un risveglio in forse, una nota sospesa sul pentagramma che non vuole saperne di suonare.
Poi c’è un uomo rude, vagamente burbero, con i capelli ricci e gli occhi verdi. Ha un sorriso largo sotto il grosso naso. Sopracciglia folte e mani da lavoratore. Non ha bei modi, mi sgrida spesso, ma ha un cuore accogliente. Mi insegna a conoscere la terra, mi fa vedere il volo stanco degli aerei al tramonto. Mi solleva con forza e mi porta in alto. Poi sprofondo in un altro episodio. Letto di ospedale e flebo. Puzza d’alcol e corsie pavimentate in gomma. Lacrime. Tante lacrime. Troppe. Speranze che sembrano trapezisti senza la rete di protezione, e qualcuno cade giù senza rialzarsi. Silenzio. Candela che si consuma. Silenzio. Troppo rumore. Mi scoppia la testa. Al tramonto le ombre si allungano e i pensieri si fanno più cupi. Poi c’è lui, il mio cagnolone, compagno di un tratto di vita percorso assieme. Ultima assenza che non vale meno delle altre solo perché si insinua nei miei pensieri a quattro zampe invece che a due. Il peso aumenta e la mia schiena è fragile. A volte un ricordo mi accarezza e gli sorrido. Altre volte mi sbatte in faccia in un frontale che mi devasta. Non sono una che accetta facilmente i cambiamenti.