Nel nome di Krishna
Che sia quasi iniziata l’estate londinese al vento pare non importare un granchè: è giugno e, freddo come solo a fine inverno, Eolo si incanala tra i vicoli del centro riversando sui vetri dei palazzi tutta la sua rabbia.
I fischi rimbalzano per l’ufficio, mescolandosi al picchiettio irregolare sui tasti dei pc e a qualche commento che ogni tanto scivola nell’aria, spezzando la monotonia grigia di un pomeriggio come altri.
Ma è col vento che da lontano arrivano echi di tamburi e cembali, voci di uomini che ripetono insistentemente lo stesso ritornello:
Hare Kṛṣṇa, Hare Kṛṣṇa, Kṛṣṇa Kṛṣṇa, Hare Hare
Una collega stacca gli occhi dal monitor per volgerli al cielo mentre il mantra continua:
Hare Rāma, Hare Rāma, Rāma Rāma, Hare Hare
Li incontro nella caotica Oxford Street, il cuore di Londra, assalito da turisti che deambulano con l’occhio a mezz’asta, visibilmente provati dalla tanto contagiosa febbre da shopping. Non ne conto più di sei, alcuni vestiti di bianco, altri di arancione, tutti con i capelli rasati e un codino microscopico che pende dalla nuca. Solo allora capisco come facciano a sovrastare le urla del vento e a raggiungere la mia scrivania fin su al quarto piano: hanno uno stereo. Uno di loro mi si avvicina a passo di danza e sempre a passo di danza mi porge un volantino. Dice che ci sarà una parata quella stessa domenica. “Siete invitate”. La collega alza gli occhi al cielo per la seconda volta, ma mi promette che ci sarà.
Infatti c’è, e non solo lei. Una folla vociante e colorata di dozzine e dozzine di iniziati si staglia contro il Wellington Arch a ridosso dell’Hyde Park Corner. Nel bel mezzo un carro enorme, sovrastato da una tenda rossa, viene trainato dai fedeli per mezzo di funi del diametro del braccio di un uomo.
Una ragazza dallo sguardo sveglio e dalla parlata svelta mi prende per mano e mi trascina letteralmente davanti al carro, in prossimità di una delle funi. “Toccala – mi dice – aiuta anche tu!” e mentre basita cerco di non finire schiacciata dai fedeli che fanno a gara per “portare il dio”, mi scatta una foto.
Lascio ad altri il compito di caricarsi del divin fardello, e in preda all’eccitazione prendo a scattare foto a raffica pure io: tutto intorno è solo gioia. Sorprendentemente direi, visto che dal mio passato cattolico emergono reminescenze di ben altri tipi di processione, dove – in contrasto con la vivacità dei petali di rosa gettati per la via al passaggio del Corpus Domini – compostezza e raccoglimento la facevano da padrone. E guai a chi fiatava.
Qui invece è tutta un’altra musica: la gente si saluta chinando la fronte e congiungendo le mani in segno di preghiera, balla in cerchio al ritmo frenetico del mantra, batte le mani, si getta a terra al passaggio del dio. Sorride. Li guardo in faccia e solo allora mi rendo conto della varietà di etnie a cui appartengono. Tacitamente mi chiedo in realtà chi siano, e come se i miei pensieri si fossero materializzati nell’aria, una signora mi passa della frutta secca e un libriccino.
Leggo che l’Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna (in inglese ISKCON) viene fondata nel 1966 a New York dal maestro spirituale indiano A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada, il quale a sua volta applica i precetti del mistico bengalese Caitanya Mahaprabhu, vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo.
Lo scopo dichiarato è quello di promuovere la coscienza di Krishna, ovvero del divino, per mezzo dell’auto-purificazione e dell’evoluzione spirituale. Il mezzo per eccellenza è la ripetizione della sequenza Hare Kṛṣṇa, Hare Kṛṣṇa, il Grande Mantra, a cui è attribuito il potere di destare l’uomo dall’illusione del reale e di metterlo nella condizione spirituale necessaria per fare esperienza dell’amore divino.
Una ragazza con il sari fucsia dai bordi dorati estrae il rosario che tiene nella saccoccia ricamata e mi spiega che gli iniziati lo devono recitare almeno sedici volte al giorno. Non riesco a trattenere uno sguardo attonito, ride e continua: “il corpo è mortale ma l’anima è eterna. A nessuno è dato sapere in che corpo si reincarnerà nella prossima vita, l’importante è lavorare per sviluppare un animo saggio”. Dice che la mente è come una scimmia che si ostina a desiderare il superfluo. Recitare l’Hare Kṛṣṇa, menzionare il nome di Dio, è l’unico modo per restare focalizzati sull’essenziale. “Anche questo è fatto per ricordarcene” e si passa la mano sul simbolo che ha dipinto in fronte, un cerchio giallo impresso tra gli occhi, che si divide in due strisce parallele mano a mano che sale verso la fronte. “Il tilaka simboleggia il piede di dio. La nostra fronte è ai suoi piedi, noi ci inchiniamo a lui”.
“Non importa quale sia il nome del tuo Dio – conclude – l’importante è che tu lo ripeta”. E come è arrivata se ne va, lasciandomi a rimurginare sulle sue parole.
Lascio il corteo quando ha oramai raggiunto Trafalgar Square. Sotto una pioggierella impalpabile le ragazze continuano a dimenare le gonne colorate, a far tintinnare i bracciali, a far brillare gli occhi sotto l’eye liner scuro. Oggi si celebra anche la loro bellezza.
Mi allontano dalla piazza leggermente stordita, portandomi ancora nelle narici il profumo degli incensi. Mi dico che gli Hare Kṛṣṇa sembrano stare fuori dal mondo, ma per come lo comprendono in fin dei conti manco tanto.
E senza sapere come e perchè, mi sale alle labbra il ritornello di una famosa canzone di Geroge Harrison, My sweet Lord. Prendo a canticchiarla e non posso fare a meno di piegare le guance in un sorriso: tra un hallelujah e un altro il buon vecchio George ci ha infilato pure lui – a sorpresa – un Rama, un Krishna.