Arrivano i profughi
“Arrivano i profughi” diceva un titolone su un noto giornale locale. E loro sono arrivati, così, in sordina, senza che nessuno si accorgesse di nulla. Quello dove ora abito è un piccolo centro incastonato nel verde aspro e a tratti domato della piana della Nurra. Poche persone, una chiesa, un negozio di alimentari, i carabinieri e un ufficio postale: l’essenziale, che lo accomuna a uno di quei villaggi dei film Western. Dietro la chiesa il profilo quasi brullo di Monte Zirra, o Monte Mangiato come lo chiama mio figlio, osserva sornione. “Sono più di duecento”, mormorano. Sono ottanta. Sono poco più che ragazzini, tra i sedici e i vent’anni. Hanno lo sguardo spaurito e salutano le macchine che passano. “Ci attaccheranno l’ebola!” Si certo, perché smistano i profughi malati, lo sanno tutti. Qui da noi ci danno quelli con l’ebola, in Sicilia con la scabbia, insomma, quando cervello e lingua lavorano in progetti separati ecco cosa ne viene fuori. Il razzismo latente e filiforme, quello che non ti aspetti perché “non sia mai, non siamo razzisti” epperò “perché non ve li portate a casa vostra?”
Perchè chi è profugo non ha più nemmeno il diritto di sognare.
Ma torniamo a loro, perché io li ho visti bene questa volta. Intanto vediamo, dove li hanno sistemati? In un ex convitto in disuso da almeno tre anni, senza i servizi minimi per un’igiene decorosa, quindi se mai preoccupiamoci del colera più che dell’ebola. Doccia: una, fuori, in cortile. Materassi buttati a terra, del resto la Montessori lo raccomandava caldamente per i più piccoli, dite che non andrà bene per dei profughi neri? A gestire questo spostamento di carni umane una cooperativa di cui non ricordo il nome e onestamente manco mi frega di saperlo ché quello che penso di questi enti esula dalla bontà delle mie intenzioni di non sprofondare nel gretto turpiloquio. Adesso le notizie dei giornali: io lì davanti quando hanno dato loro la “paghetta” non c’ero. Ma stando ai quotidiani locali siamo ben lontani dalle ricche mance continentali, qui sull’isola il bonus profugo diario è di 2,50 euro. Puoi scegliere tra un panino al salame o un gelato confezionato più giornale. Nemmeno i soldi del biglietto dell’autobus per Alghero, quasi quasi. O senza quasi?
Li ho osservati, li ho osservati di proposito. Trascorrevano le loro lunghe giornate seduti dietro alla rete della recinzione da cui guardavano le auto in transito. Alcuni più temerari camminavano sul ciglio della strada, passeggiando sotto i pini tra morsi d’ombra e il giallo del sole cocente. Proprio quei giorni ha fatto un caldo pauroso e loro indossavano spessi maglioni di lana. Un ragazzino, avrà avuto più o meno diciott’anni, fissava l’incrocio al semaforo con i grandi occhi scuri, tristi sì, ma con una scintilla che solo a quell’età ti consente di tirarti su da una situazione come quella. Qualcuno ha perso tutta la famiglia tra i flutti, qualcuno solo i genitori, o un fratello, una sorella, uno zio. Tutti hanno perso qualcuno. Divisi dalla religione, sono musulmani e cristiani, accomunati da un destino di sofferenza.
Li hanno portati via, il luogo d’accoglienza di accogliente non aveva nemmeno il nome. Li porteranno in un altro centro in campagna. Protestano. Sono solo ragazzini, soli, spauriti. Ma su, siamo sinceri, quanti dei nostri figli poco più che adolescenti avrebbero preso di buon grado la notizia di dover soggiornare per il prossimo anno o mesi che siano, in un centro lontano dal mondo? Ma del resto chi è profugo “è già tanto che non è morto”, “deve ringraziare che gli danno un posto dove dormire”. Vero. Perché chi è profugo non ha più nemmeno il diritto di sognare.