L’utero sofferente del mondo di Eve Ensler
Descrivere la malattia è difficile. È ancora più difficile se sei una star, una che coi suoi controcoglioni – mi si passi il termine, e me lo si passi doppiamente giacché dovrai forse dire controovaie o qualcosa del genere – e con i tuoi Monologhi della Vagina hai spopolato e ti sei fatta la fama di donna indistruttibile.
Descrivere la malattia quando sei americana è probabilmente ancora più difficile, sotto la spinta di quel sensazionalismo made in USA da cui è difficile scappare.
Ecco perché ho intrapreso la lettura di Nel corpo del mondo. La mia malattia e il dolore delle donne che ho incontrato, di Eve Ensler, di recente pubblicazione con Il Saggiatore, con estrema ritrosia. Sotto consiglio di persone che stimo, ho deciso di leggerlo fino alla fine. Perché la Ensler come donna ha la mia stima, sì. Ma i libri pubblicati dopo la malattia di very important people hanno sempre il retrogusto di richieste mirate di importanti editori. E come una mina inesplosa è costante il rischio di crollare in un susseguirsi di rammarico, autocommiserazione, autoglorificazione, memoria dolore. Veri, sì, ma di scarso valore artistico-letterario. Veri sul piano umano, sì, ma allora perché pubblicare quelli della Ensler di turno e non quelli di chiunque altro?
Ma no: avevo deciso di leggere Nel corpo del mondo senza pregiudizi. Così ho fatto.
Di seguito, ciò che più ho apprezzato di questa patata bollente di difficile gestione. Di ciò che mi ha colpita nonostante a tratti il tono made in US, il capitolo breve e ad effetto probabilmente voluto dalla casa editrice, la frase sensazionale emergano.
Anzitutto: Un’attivista non si ammala.
Siamo a pagina 25 e la Ensler racconta il cancro negandolo. Zan! Ma poi ammette la sonnolenza, subito dopo (pag.26). Sonnolenza come stato di vita e stato di malattia, come apatica rassegnazione, come lasciarsi vivere che si acuisce col cancro.
Il suo è un lento percorso di consapevolezza ed accettazione, di lotta, scavalcando l’alienazione, la brama del vuoto, dei vuoti (“Sono sempre stata attratta dai buchi. Buchi neri, buchi infiniti, buchi impossibili, assenze. Distanze, squarci nelle membrane. Fistole.”) per arrivare ad una convinzione: sto salvando la mia vita.
Con coraggio, come per dover toccare con mano la vita ed accertarsi che ci sia, Eve ricerca costantemente la bassezza, la concretezza, la propria merda – sì – per prendere contatto e consapevolezza di sé . Vuole toccare la stomia , “boccuccia che ora indirizza la mia cacca nel sacchetto” per poi concludere: “e capisco ora come l’essere esposta, questo capezzolo pieno di merda della mia vulnerabilità, è stato il cammino verso la compassione” ( p. 53 )
Coraggio che non esenta da momenti difficili. Affermare di non voler più vedere un albero perché l’albero contiene vita, simboleggia la vita, è vita. Rendersi conto così di quanto, odiando gli alberi, si è di fatto per lunghi periodi rifiutato il dono della vita.
Presa consapevolezza della malattia, Eve comincia un nuovo percorso interiore per affrontare la chemio. Ed è salvifica la voce che le suggerisce :
“La chemio non è per te. È per il cancro, per tutti i crimini passati, per tuo padre, per gli stupratori, per i colpevoli. Li avvelenerai e non torneranno mai più. La chemio purgherà il male che ti è stato proiettato addosso ma che non è mai stato il tuo. […] Il tuo compito è di accogliere la chemio come un guerriero empatico” .
Salvifica perché spinge la Ensler a parlare di “salto di coscienza, spostamento della coscienza. Penso alla foresta pluviale. Penso a camminare in quello che gli sciamani chiamano “le frontiere della morte mentale”. […] Dico sì, la chemio sarà la mia medicina. La cavalcherò come un leone.”
La cosa che probabilmente mi è piaciuta di più del libro della Ensler, seppure nel mio ostinato scetticismo, è la fusione che la porta, dal dolore, a fondersi in una sorta di panteismo.
Eve ricerca costantemente la bassezza, la concretezza, la propria merda
“Storie. Storie di donne obbligate […] a guardare i soldati che si portavano via mariti e figli per sempre. Storie che mi entravano dentro come shrapnel emozionali, conficcandosi nelle cellule e nelle viscere. Storie che mi avrebbero posseduto e guidato. Storie che non lasciano mai.”
Si approda poi ad una comunione armonica col mondo intero. Il dolore della malattia è anche il dolore delle guerre, delle morti ingiustificate, degli stupri, degli addii, dei tradimenti, della lontananza, della morte.
“Ora siamo un’unica, selvatica massa di donne che vibrano con i tamburi, calciano, infuriano e perdono liquidi.”
L’immagine è tanto potente che non si crede alla Ensler quando poi dice:
“Devi scavare a fondo per non essere un credente. Devi affinare il tuo sarcasmo.“
No: la Eve che ci racconta è credente eccome. È una sorta di particolare panteismo, il suo, una fusione cosmica e la strenua ricerca, sofferente, straziante, di uno spirito materno e femmineo che la abbracci, un utero che le faccia da riparo.
E, in fondo, lo ammette lei stessa quando dice:
“C’è qualcosa nell’essere afferrata, serrata e sottoposta alla chemio che è così estenuante e catastrofico da trascinarti verso uno stato mistico in cui sei completamente immersa nel corpo, dentro l’incavo profondo della caverna del tuo corpo, così dentro che scavi sul fondo del mondo. Lì ho cominciato quest’ardente meditazione sull’amore.”
Ma forse non si può giudicare una persona quando in stato di malattia. Forse la si può solo osservare, guardarla vivere, esprimere la sua esistenza senza cercare coerenza con ciò che è stato prima. Perché non è vero che gli attivisti non si ammalano. Perché la malattia arriva senza chiedere il permesso e non passa mai dalla porta principale e quando arriva stravolge tutto ciò che è stato prima.
E resta solo la forza interiore, ma va cercata perché si nasconde, e spesso non ne rimane che un urlo disperato, un bagliore sempre più flebile.
“Faccio buone le cose brutte. L’ho sempre fatto. È un tipo di comportamento ossessivo compulsivo. Alla fine è probabilmente un difetto di carattere: incapace di affrontare la spietata e totalmente miserabile condizione esistenziale.”