Crave, qualcuno bisbiglia all’orecchio dell’anima
Una prigione. Forse un manicomio. Comunque, delle celle. Quattro loculi angusti; in essi due uomini e due donne. La scena infonde turbamento. E oppressione. Tu sei libero, spettatore esterno. Loro no. Il tema dev’essere la libertà.
Ma poi lei, la donna più grande, vuole un figlio da lui, uomo giovane, che la rifiuta umiliandola, perché mentre lei vorrebbe farlo senza amore, è l’amore ciò che lui cerca. Ci siamo: il tema dev’essere l’amore, e il sesso. O forse la vecchiaia, o la vita che sfugge, e alla quale nessuno sopravvive.
Ma poi lui, l’uomo più anziano, racconta di quando lei, donna giovane, subì da lui violenza, penetrando nelle perversioni più malate. Ecco, il tema dev’essere il dolore. O forse la prevaricazione, o il potere. La virtù, diamine!: il vizio, e la virtù.
Immaginate di viaggiare bendati nel dolore dell’anima, spinti di lato, davanti, da tergo, da istinti sopiti, ignorati, repressi, e avendo sussurrato all’orecchio frasi impazzite di ricordi, spezzoni, scampoli di vita nostra e altrui: sarete dentro Crave
Proprio quando avevate pensato d’esserne irrimediabilmente fuori, vi ritroverete dietro le sbarre della vostra esistenza, raccontata da parole confuse che raccontano la loro, mentre la vostra anima restituisce un senso a quello che le orecchie sentono, senza però capire.
Crave di Sarah Kane, per la regia di Pierpaolo Sepe, è uno stillicidio di parole sparate in faccia goccia dopo goccia a uno spettatore attonito che disperatamente cerca, senza sosta, di dipanare la spirale di senso che l’opera include, con l’intima certezza che un senso dev’esserci, ché di senso la scena oggi è gravida più che mai.
Solo che la chiave di lettura, quando pensi d’averla colta, ancora ti sfugge, e la fatica mimetica degli attori, proverbiale in quest’opera, ti possiede in modo quasi fisico, e t’assale permeandoti del loro sudore, dei loro spunti di amore, di morte, di dolore, di gioia accennata e di ricadute nella disperazione, in un’ansia di libertà che è anelito di liberazione da un’oppressione che rappresenta anche, ma non solo, il male di vivere.
Immaginate di trasporre in scena quanto di più intimo e irriferibile nasconde il nostro subconscio, di ridestare dalle ceneri la nostra energia vitale, ceneri di ansie, di paure, di preoccupazioni, di speranze, di dolore, pensieri, sogni, parole, incubi, illusioni e utopie. Tutto insieme disordinatamente, senza regole, come regole in fondo non ha la vita e il suo anarchico svolgersi degli eventi: sarete dentro Crave.
Immaginate di viaggiare bendati nel dolore dell’anima, spinti di lato, davanti, da tergo, da istinti sopiti, ignorati, repressi, e avendo sussurrato all’orecchio scampoli impazziti di ricordi, frasi, spezzoni di vita nostra e altrui, di esistenze reali o immaginarie, o fors’anche soltanto desiderate: sarete dentro Crave, e la libertà avrà a quel punto un senso diverso, e più compiuto.
Una libertà che si esprime nei loro corpi d’attore d’improvviso resi nudi, che sbattono, spingono, cadono, scalciano, urlano, si scontrano, si piegano, ancora urlano, cadono e s’abbracciano, s’intrecciano, si cercano e si evitano, si respingono e poi, come alla rinfusa si sono svestiti, alla rinfusa si rivestono, contaminandosi reciprocamente, e reciprocamente mettendosi l’uno nei panni dell’altro.
Un dolore che si esprime nella ineluttabilità di una condizione di prigionieri, di reclusi, di esiliati, all’interno di una prigione che, nella mia personalissima interpretazione, è la vita; una rabbia che si esprime nell’urlo liberatorio, nell’istanza animalesca dell’evasione dalla gabbia, nel lancio di milioni di pupazzi a simulacro di noi, e di loro stessi, in direzione di noi, che siamo lì, uguali eppure liberi.
Andate a vederlo, non potete perdervelo.
Ancora stasera e domani. Info qui.
Crave, Sala Assoli per il Napoli Teatro Festival
di Sarah Kane, regia di Pierpaolo Sepe
con Dacia D’Acunto, Gabriele Colferai, Gabriele Guerra e Morena Rastelli.