Qualcosa in pugno
Con questa uscita, cari lettori, Me lo ha detto Ziggy Stardust si congeda da voi per la pausa estiva. Riprenderà le pubblicazioni nella seconda metà di Settembre. Allora, se tutto andrà secondo le previsioni, Facciunsalto uscirà anche con il primo numero da magazine cartaceo, nella versione street-magazine. Vi troverete lo stesso tipo di scritture emozionali a cui siete abituati online, ma su carta stampata, venduta in strada da persone socialmente svantaggiate con il metodo dello strillonaggio.
Per spiegare meglio a tutti voi la portata di questo progetto, ho pensato di scrivere un racconto, ispirato alla storia, vera, di uno strillone che ho conosciuto a Monaco di Baviera. Questa persona, che vive di assistenza sociale, vende Biss, lo streetpaper locale, una rivista di contenuti sociali. Come e perchè uno street-magazine può essere di aiuto, spero ve lo dirà questo racconto. E spero quindi che potrete stimare meglio il nostro progetto, con il quale vi aspettiamo a settembre.
Buona Estate
p.s. Mi troverete comunque online su facciusalto in Luglio e Agosto con la rubrica “estiva” Alghero e Lo Straniero, vi aspetto!
Siedo davanti ad una classe, in una scuola. Racconto la mia storia perché sia di avvertimento per i giovani.
Raccontarmi, far sì che la mia storia serva a qualcuno per capire: lo devo a un piccolo giornale. Da lui sono partite una serie di possibilità davvero positive. Ho risposto ad un annuncio
Quando avrò finito di raccontare di quello che ero io prima, i ragazzi mi faranno domande, e io dirò loro di quello che sono adesso, adesso che sono pulito. La mattina mi alzo, apro il balcone, guardo il giardino che sta nel silenzio, i bambini del condominio che spingono le biciclette lungo il viale fino alla strada e vanno a scuola. Mi auguro che riescano sempre a vedere nella vita la parte della luce, quella che vedo io adesso anche nel mattino più buio: il sole che si alza dietro gli alberi e illumina il giorno, fa iniziare l’energia che ci trascina verso il futuro. Che non finiscano mai in quel vortice nero che divora, là dove ero finito io. Che non provino mai la voglia di buttare via i giorni, affogarli nell’incoscienza. Che restino vigili e possano sorridere.
Questo dirò ai ragazzi, dopo aver raccontato cosa c’era in fondo ad ogni bottiglia che bevevo.
La possibilità di raccontarmi, di far sì che la mia storia serva a qualcuno per capire, la devo a un piccolo giornale. Da lui sono partite una serie di possibilità davvero positive. Ho risposto ad un annuncio, ero uscito da poco di galera. Buona condotta, riduzione della pena. Due mesi prima se n’era andato il mio vecchio. Sono andato a casa sua: stava lì, chiusa e stantia, ma era come se mio padre vi avesse vissuto fino a poche ore prima. C’era persino la rivista dei programmi tv aperta sulla pagina del giorno della morte, con i suoi occhiali sopra. Ed è lì che ho visto il numero. Cercasi strilloni. Era di due mesi prima ma ho chiamato.
– Sono in tempo?
– Sì il progetto partirà a breve.
Mi hanno spiegato. Un piccolo bimestrale che racconta storie. Storie qualunque. Niente cronaca, niente politica, il punto di vista di chi scrive. Cosa uno prova, cosa immagina, come è capace di raccontarlo ad altri. Aiutando persone in difficoltà.
–Beh, io lo sono. Ho raccontato qualcosa di me.
– Sono appena uscito dal carcere, per fortuna ho la casa di mio padre. Immaginando che potessi presto uscire di galera il mio vecchio ha pagato l’affitto in anticipo per un anno. In passato non lo avrebbe fatto per me. Intanto mi posso organizzare per trovare qualcosa, e continuare a mantenermi questo appartamento. Se ce la faccio, sono fortunato.
– Puoi vendere il nostro giornale e trattenere metà del prezzo di copertina. Più vendi e più ne hai di ritorno. Una buona cosa.
– Accetto.
La galera vera non era quella stanza dove son stato rinchiuso per quattro anni. La galera vera è stata dentro me. Quando ho cominciato a cambiare, a capire. La vera galera era lui, quell’altro. Quello che mi ha vissuto dentro. Man mano che prendevo coscienza di chi ero stato, di cosa avevo potuto fare alla mia vita e agli altri, man mano che lui moriva e io nascevo, la galera interiore diveniva più dura.
Eppure, non era iniziata così male. Avevo perso la madre molto presto, questo sì. Mio padre lavorava duro, i turni in fabbrica erano lunghi, tornava stanco, con l’amarezza sul viso. Però ci capivamo io e lui. Cercava di trasmettermi le sue passioni: i libri di avventura, la vita degli uccelli.
Adesso, tengo molti uccelli con me in casa. Girano liberi, mi volano intorno. Ogni tanto escono fuori ma poi tornano. Quando non tornano è perché fanno il nido in giardino, tra i rami della Tuia alta e snella che con la sua punta tocca il balcone.
A volte mi sveglio di soprassalto mentre dormo: nell’inconscio, lui, l’altro me, ritorna.
Vedo lei in un lago di sangue che si tocca il ventre, urla. Finiva ad urla tante volte tra noi, dopo aver bevuto. Ma quella volta le urla erano diverse, gelavano dentro. Lo percepivo quel gelo, anche se ero marcio di alcool, di birra mista a vodka. La vedo in ostetricia all’ospedale, non lontano da lei il feto di sei mesi di nostro figlio, uscito appena dal suo ventre, e già esanime sotto un telo madido di umori.
Sono io che l’ho presa a botte, sono io che l’ho ridotta così. Ero lui, io.
Bevevamo molto, da soli o in compagnia, eravamo due alcolisti. Non so chi di noi due ha iniziato prima. Ci incontravamo ai giardini con altri, parlavamo di rabbia, della vita che è vuota. Avevo lasciato mio padre per andare da lei, nello scantinato a casa di sua nonna. Venivano gli amici, musica a randa, alcool, finivamo a litigare per qualsiasi cosa; per uscire, per stronzate. Poi un giorno è venuta a prendermi al bar.
– Aspetto un bambino. Vorrei tenerlo.
– Tienilo, se non abbiamo da mangiare?
– Qualcosa si trova, mia nonna ci aiuta.
Una sera quando gli altri sono andati volevo fare l’amore ma lei no, aveva mal di pancia. Io ero fatto, non vedevo niente, l’alcool mi toglieva tutto. Ero lui, l’altro: le sue mani piene di botte, la testa piena di corvi. Com’è andata non lo ricordo.
Un mese dopo lei è morta nel sonno. L’accusa ha cercato di provare che erano state le botte. Ma niente, le si era fermato il cuore. Non aveva lesioni interne, non aveva altri traumi, solo il ventre vuoto e il cuore lento, lento di dolore. Si è fermato. O forse era colpa sì delle botte ma non l’hanno potuto dimostrare. Non fa niente, provato o no, lui l’ha ammazzata e io lo so. Ma quello, l’ho detto, non sono più io.
Mi chiedono, lasciano parlare, poi prendono il giornale, e qualche volta, lasciano un piccolo extra. Qualcuno mi offre un lavoretto
– Ti va di raccontare storie pure a te? Potresti insegnare molto ai ragazzi.
– Perché no. Non avevo niente in contrario.
– Ne parlo col provveditore.
Così hanno creato un piccolo stipendio, ed una volta al mese vado nelle scuole, in una classe sempre diversa, a raccontare la mia storia. Racconto ai ragazzi che in fondo ad ogni bottiglia che bevevo, c’era la morte.
Così queste storie del giornale mi hanno aiutato. A pagare l’affitto della casa di mio padre ce la faccio, e la vita ora mi sembra pulita come il cuore. Vi sembrerà poco, ma per me, è molto. Mi sembra di tenere qualcosa in pugno. Qualcosa, che non sono le botte.