Non più briciole, mamma le ha raccolte
Non più briciole, Lory. Ma una vita piena piena. Te la meriti, figlia mia adorata.
Forse Loredana non voleva nemmeno le briciole. O forse almeno quelle le avrebbe mangiate, perché in fondo dicono che l’anoressia nervosa sia la malattia del mangiar poco, non quella del digiuno. Ma di certo non è una vita di rimasugli quella a cui un’anoressica aspira essendo tale. E’ una vita piena. O una non vita. Basta che sia intera e assordante, che ci siano solo superlativi assoluti. Anche se poi forse si sbriciola (la vita).
Una storia di anoressia, di bulimia, di tutto e di niente. Il sequel non sequel di Briciole, prima pubblicazione – parzialmente autobiografica – di Alessandra Arachi. Ma stavolta protagonista non è una persona affetta da disturbi del comportamento alimentare, bensì la madre di questa.
Marta ci racconta di Loredana, sua figlia, che volteggia ammaliata nelle braccia della morte. E’ un ballo imprevedibile. Prima E’ una vita piena. O una non vita. Basta che sia intera e assordante, che ci siano solo superlativi assoluti. Anche se poi forse si sbriciola (la vita)
Poi le danze si fanno scatenate e le briciole diventano le carcasse di una voragine. Sono i resti di quattro chili di pane. Di cinque pacchi di biscotti. Sono le gocce di sudore che bagnano il volto di Loredana mentre è china sul wc. E’ disco dance. E’ il ballo promiscuo del vorrei staccarmi da te ma non ce la faccio. Del ti odio e ti amo. Della meretrice che non sa più se sta tradendo qualcuno o se stessa.
Le azioni sono di Loredana. I sentimenti di Marta. Marta ci legge una storia già scritta, appuntando a margine le sue emozioni, ma con la pretesa di poter decidere il finale. Di controllare che tutto sia a posto, che tutti siano felici e in salute, che lo sia specialmente Loredana, perché dalla felicità della figlia deriva la sua. Controllo. Lo stesso che Loredana ha cercato di riprendersi comandando l’ago della bilancia.
Nel suo romanzo la Arachi si prefigge un obiettivo tanto ambizioso quanto nobile: sconfiggere lo stereotipo della madre come artefice primaria del disturbo alimentare della figlia. Una letteratura sterminata lo ha generato e avvallato. Orde di mamme hanno pianto sulle pagine di quei manuali o negli studi di quei medici colpevolisti.
Ma qui sorge il dubbio. Non nell’intento, bensì nel modo per raggiungerlo. Raccontando la storia di Marta, che è poi quella di Loredana esperita in maniera vicaria, la Arachi non smentisce. Conferma. Conferma la colpevolezza di una frase come la citazione sopra riportata. Sii felice, perché solo così potrò esserlo anche io. Una bella responsabilità, non trovate?
C’è un punto, più o meno a tre quarti del libro, in cui le viscere si contraggono e il cuore o il cervello o quel posto da cui provengono le emozioni vorrebbe davvero le briciole, ma le briciole di quelle pagine. E’ il punto in cui avviene un lieto fine. Ritorno all’ordine. Una conclusione impeccabile, da cinema hollywoodiano anni Trenta, tanto perfetta quanto la ragazza che si è ammalata. Il mulino in cui vive la famiglia De Bellis da nero quale era divenuto torna a essere del bianco candido iniziale. Sembra chiudersi un cerchio-cappio. Come si fa a guarire ripristinando esattamente le condizioni che hanno generato il male?
In un anno esatto si sono aperte e chiuse le porte dell’inferno. Una parentesi tanto tonda e tanto quadra, quanto, matematicamente, fredda. Per fortuna si è solo a tre quarti del romanzo.