La Cavalcata sarda
Da anni la penultima domenica di maggio è un appuntamento fisso con la Cavalcata sarda. Da ragazzina l’evento aveva il sapore delle prime conquiste di spazi più o meno controllati, di quelle libertà a cui ogni adolescente s’aggrappa, e il gusto fresco dei primi baci scambiati tra brividi e paure sulle panchine dei giardinetti pubblici.
Capelli miele, occhi verdi e labbra carnose, afa e giubbini di jeans, palloncini colorati che volano via tra i rami degli alberi. Ancora oggi ci sono gli stessi palloncini e l’odore delle anguille arrosto e di zucchero bruciato e cipolle arrostire su piastre dall’igiene molto improbabile, ai limiti del colera. La stessa sfilata di costumi che si snoda tra le vie del centro. I gruppi che sfilano accaldati mostrano con orgoglio gli abiti di festa, o quelli a lutto, o delle giornate normali, scandite dai lavori domestici o al pascolo o negli orti.
Donne di straordinaria bellezza, strizzate in corsetti ricamati e cariche fino all’inverosimile di gioielli, camminano con passo cadenzato con l’antica fierezza che contraddistingue questo popolo. Il mio. Qualcuna elargisce radiosa un sorriso schiudendo i bianchi denti; altre sono imperturbabili, come se facessero parte di un’altra dimensione. Portano cesti lavorati a mano con all’interno prodotti tipici che distribuiscono (soprattutto) alla tribuna delle cariche comunali, lasciando gli altri astanti con un triste bolo avvolto dal desiderio.
Aspetto con la solita trepidazione i Mammuthones di Mamoiada, i Merdules e i costumi coloratissimi di Desulo e Orgosolo, i miei preferiti. Spettacolare Sa Filonzana, la parca che fila la lana e decide il destino degli uomini, che si prende gioco della folla o offre un bicchierino di quel vino sincero che con i 28 gradi di temperatura esterna ti dà alla testa per tutto il pomeriggio. Superbi i pescatori di Cabras che hanno un costume del tutto particolare e che camminano scalzi, incuranti dell’asfalto rovente di mezzogiorno.
Eppure sento che quella magia, quella trepidazione s’è persa, tra gli angoli e le vie che dall’adolescenza portano a una maturità scontata. Quell’ansia di vivere le prime serate quasi estive abbracciata a chi ti faceva battere il cuore come quello dei cavalli delle pariglie.
Forse era il gusto del proibito, o la gioia di avere diecimila lire da spendere in dolci e pasticci vari. Un tempo le vie del centro si riempivano di bancherelle, da quelle del famoso torrone di Tonara, oggi sdoganato in modalità turistica anche al mirto e al limoncino, alle noccioline glassate, fino a quelle di bigiotteria artigianale dove potevi comprare enormi orecchini a cerchio come dettava la moda del momento, e anelli d’ogni foggia che dopo due giorni ti stampavano un cerchio nero attorno al dito.
La gioia era anche quella di “farsi” un panino in uno dei vari chioschi, farcito con salsiccia e wurstel e grondante di salsa mentre l’odore dello sterco di cavallo lambiva le narici. Giù nel cortile della media numero 2 i porcetti giravano sugli spiedi. Le anguille, infilzate a “S” si imponevano con prepotenza su tutti gli altri aromi e per poche lire potevi acquistare un’ottima peretta, uno dei formaggi locali.
Oggi no; oggi devi uscire col portafogli gonfio ché solo un palloncino del tormentone “Masha e Orso” costa ben 5 euro. Le bancherelle non offrono più solo i prodotti tipici locali, ma sono diventate un’esposizione che scivola dall’etno-pop dei senegalesi e dei cinesi venditori di gusci per i-phone, a quelle radical-chic che propongono sì prodotti locali, ma che costano come una schioppettata tra le chiappe.
Si chiude così, con questo retrogusto amaro quest’edizione numero non so più quale della Cavalcata, sempre più turistica e sempre meno sarda
Cala la sera e sento più malinconia che voglia di fare lo slalom tra facce più o meno conosciute alla ricerca di vecchi amici e scampoli d’un passato lasciato anni fa sul traghetto per Roma, in quegli anni che intercorrono tra la laurea e la maternità. Sono ben pochi, ma tracciano una linea netta nella mia vita.
Si chiude così, con questo retrogusto amaro, quest’edizione numero non so più quale della Cavalcata, sempre più turistica e sempre più simile a quelle patetiche parate americane, pantomima di un orgoglio nazionale venduto al miglior offerente. I pullman accendono i motori, la puzza di gasolio si mescola a quello della festa.
I figuranti, vestiti con abiti moderni, ma senza perdere la verve ruspante dei paesi veraci, della Sardegna reale, non quella della Costa Smeralda, tra una battuta in sardo e una risata all’alito di Cannonau, salgono sul mezzo carichi di bagagli e dei loro preziosi costumi. I cavalli, dopo aver speso le ultime forze tra le acrobazie in corsa dei fantini, lasciano l’ippodromo e salgono sui furgoni, pronti a tornare a casa.