Autocamionale della Cisa
E’ un titolo che può ricordare i Kraftwerk e le Autobahn tedesche. In verità nessun sintetizzatore tra queste righe. Soltanto una lunga striscia di asfalto che collega l’Emilia al mare attraversando appennini, cantieri, brianzoli in coda. Vale quindi la pena
dedicare due righe a questa serie interminabile di gallerie e viadotti? Me lo sono chiesto qualche giorno fa, mentre percorrevo l’Autocamionale della Cisa per la milionesima volta. Era l’imbrunire, il casello di Parma appena superato, i capannoni industriali diradavano e lasciavano il posto a case coloniche ammucchiate a gruppi di tre. Le prime colline, contrafforti del massiccio appenninico, si stagliavano nere e demarcavano nette il confine con un cielo blu. Anzi: blues. Allora, mentre l’ultima luce del giorno accarezzava le acque del fiume Taro che zigzagando sotto i viadotti dell’Autostrada tentava di regolare il suo passo e giungere al Po indenne da liquami e versamenti, mi sono detto che si, qualche cosa si poteva anche scrivere.
Sono cresciuto di fianco a quell’autostrada. Oltre gli appennini, dove la strada trova requie dopo i saliscendi e le curve a gomito e l’aria ha già un che di marino. La mia casa è al limitare dell’asfalto e mia nonna da bambino mi portava a salutare i camionisti che sfrecciavano lasciando una ferrosa scia di vento. Anni dopo, mentre attendevo il carro attrezzi nella corsia di emergenza, ripensai a quei vuoti d’aria e tutto mi sembrò un po’ meno poetico. Ma questa è un’altra storia. Talvolta mi accingo al limitare di essa e la osservo, come facevo con mia nonna. Ancora gli spostamenti d’aria mi solleticano lo stomaco. Ma la sensazione che provavo allora, quella se n’è andata.
Quando ero un ragazzino e il mio mondo era limitato a un certo orario e un certo chilometraggio, il mio luogo preferito era l’Autogrill. Lì, nelle ore serali di lunghe estati felici, osservavo auto che sapevano di salsedine e crema di protezione. Gli occupanti avevano visi abbronzati, divoravano panini dai nomi di cittadine liguri. Erano sereni e io con loro. Non ho mai più provato la serenità di allora. Nemmeno quando divenni un transitante io stesso.
Sono anni che passo di fianco a Pietra Mogolana e la domanda è sempre la stessa: in quanti ci abitano tutt’ora? E ancora: esiste la bella stagione al Tugo? Il formaggio che vendono nella piazzola di sosta di Gravagna è buono? Cosa pensarono quegli abitanti di Succisa quando si videro il paese tagliato in due dal mostro d’asfalto?
Autocamionale della Cisa. E’ una sorta di cordone ombelicale. Talvolta mi accingo al limitare di essa e la osservo, come facevo con mia nonna. Ancora gli spostamenti d’aria mi solleticano lo stomaco. Ma la sensazione che provavo allora, quella se n’è andata. Ho tante suggestioni, certo, ma sono sciocchezze che derivano da libri e musica. Hai voglia di pensare a Faulkner e a quella strada descritta nelle prime pagine di Furore. Facile rimembrare la Statale 17 di Guccini o l’Highway 61 di Bob Dylan. E’ solo solletico mentale. Una cosa che non rimane, come i vuoti d’aria. Le emozioni del bambino e del ragazzino che fui, là al limitare dell’Autocamionale della Cisa, non hanno copertina, accordi, testo, ma rimangono nel tempo. Indelebili. Come la strada che da anni percorro, per me o per qualcun’altro poco importa, ogni settimana.
E comunque no, il coraggio di salutare i camionisti non ce l’ho più.