Sotto un cielo disabile
Camminava sotto un cielo disabile, un cielo senza colore, senza calore, senza luce. Un cielo in coma irreversibile, immagine riflessa del suo umore. Camminava intontito e senza nessuna capacità di vedere o sentire qualcosa intorno a sé. Camminava per non ritenersi morto, per non abbandonarsi all’abbraccio asfissiante di un letto dal quale non sarebbe riuscito più a liberarsi. L’ultimo grammo del suo istinto di sopravvivenza glielo impediva. Non distenderti, non cedere, non arrenderti, non chiudere gli occhi. Un messaggio impersonale continuava questa litania nella sua testa. Ne percepiva solo il significato, nessuna voce, nessuna inflessione, nessun tono. Solo segnali sonori, una breve cascata di suoni che ritmicamente e ad intervalli regolari lo tenevano in piedi, sveglio, ancora presente alla sua coscienza. Seguiva un percorso ignoto, senza fretta, senza alcuna necessità di raggiungere un luogo. Semafori verdi, i migliori, un tocco di colore nel grigio monotono di quella giornata. Li scorgeva da lontano e qualcosa di molto simile alla felicità gli formava un abbozzo di sorriso sulla faccia. Non rallentava neppure il passo e con la sua camminata disciplinata attraversava la strada per raggiungere il marciapiedi di fronte. Le suole delle scarpe gli ricordavano una marcia con il loro rumore secco, legnoso. Tac, tac, tac, tac, un passo seguiva l’altro come in una parata militare. Tac tac tac tac, altri due passi in avanti, due passi più lontano dal punto di partenza.
Leggeva in corsivo, leggeva parole scritte a mano, quelle più impegnative da tracciare, premeva il tasto di pausa per studiare con comodo le curve di una “r” poi di una “s” poi di una ” m”. A volte notava il trattino di una “t” troppo breve, una ” n” eccessivamente simile ad una “u”
Era stata chiusa l’ultima pagina del suo libro, lasciato capovolto sul tavolino , inerme, come uno scarafaggio a zampe all’aria. Neppure la delicatezza di essere riposto in verticale sullo scaffale in mogano, sorretto da altri volumi con il titolo in bellavista sulla costa. No, solo capovolto, anonimo, senza nome, senza importanza, trascurato come le istruzioni di un elettrodomestico che si usa ormai a memoria. Chi l’aveva letto doveva averlo trovato terribile, aveva sicuramente desiderato cancellare dalla memoria ogni residuo del ricordo di quella lettura. L’aveva abbandonato lì in tutta fretta, come se dovesse scappare dalle parole stesse che vi aveva trovato. Accanto solo mozziconi ancora umidi di lacrime, schiacciati oltre il necessario in un posacenere colmo. La stanza immersa nella penombra per gli scuri alla finestra semiaperti, i raggi di un sole timido a giocare con l’aria azzurrognola di ciò che rimaneva di tante sigarette appena consumate.
Somigliava al sangue, così caldo, dall’odore così penetrante, come di ferro arrugginito. Gli sembrò familiare quella tinta e ripensò al libro che aveva scritto durante gli ultimi due anni, le lettere erano dello stesso rosso