Poesia
Poesia:
un sentimento vestito da barbone
fa il giro lungo e si nasconde.
Esce dal retro , in vesti meravigliose.
Se incontra ciò che vuole si ferma.
E respira.
Basta, ho deciso: mi taglio la vena poetica. Detesto i poeti. Detesto tutto ciò che è poesia. I versi sono insopportabili. Sono come delle schegge impazzite pronte a conficcarsi nella pelle di chi le legge. E di chi le scrive, prima ancora. Per non parlare dei reading di poesia. Gente che si raduna per leggere le proprie poesie e che spesso ha un modo di scrivere abbastanza mediocre. Figure retoriche o riferimenti culturali che si capiscono da soli. Loro, sì, i poeti. Leggono le poesie e poi dicono: ben fatto, ben scritto, ben detto. Rime baciate, rime che si sorridono, rime che si dividono per poi ricongiungersi. E che palle! Ecco, l’ho detto. E non lo nego. Adesso tocca aprire la parentesi sui concorsi. Non amo parteciparvi. Il motivo principale è che costano. Volendo partecipare ad ogni singolo concorso di poesia durante l’anno, solo nella mia Regione, dovrei spendere due/trecento euro al mese. Non ce li ho e se li avessi mi farei una gran vacanza (dalla quale cavare poesie). L’altro motivo è assai più particolare. Spesso in questi concorsi (che adesso si chiamano contest) i partecipanti raggiungono un’età media considerevole. Non ho partecipato a molti concorsi, questo è vero, però quando è capitata l’occasione mi sono ritrovato tra teste grigie e pelle del collo cascante. Una sorta di museo vivente di poeti autoreferenziali. Qualche spunto interessante, per un confronto interessante, l’ho trovato. Non ho ancora trovato un poeta che mi dicesse: no, questa volta ho davvero scritto una baggianata (per usare un eufemismo). Come? Io che faccio? Scrivo poesie. Cioè, mi piace scrivere. Una delle mie prime passioni. Scrivo molto anche in prosa. Non ho deciso ancora qual è il genere che mi piace di più. Compongo versi, almeno ci provo, dall’età di tredici anni. Da qualche parte dovrei avere conservata la prima poesia. Ricordo sicuramente che c’erano le stelle e c’era un cuore. A tredici anni, con tutto quell’ormone, io già pensavo al cuore. Avrei dovuto fare il cardiologo. A quattordici anni scrivo la seconda poesia. Adesso non ricordo, ma era più elaborata della prima, complice il quarto ginnasio. Correva l’anno millenovecentonovantasette (1997, che è più semplice). Gli studenti più grandi, quelli rivoluzionari (con jeans firmati, occhiali firmati e permessi firmati), si organizzano per occupare la scuola, in protesta contro non ricordo quale riforma sbagliatissima dell’istruzione. A quattordici anni non capivo niente di politica. Capivo di ormoni. Non capivo di poesia, non capivo d’amore (diciotto anni dopo non è cambiato molto). Scrivo questa poesia nella quale dichiaro il mio spropositato amore per R. F. (solo le iniziali, per la tutela della privacy). Mi devo mettere in coda. Fuori la porta della nostra classe, in fervente attesa, ci sono altri tre compagni pronti tutti e tre a dichiararsi a R. F. Quindi, quattro quattordicenni (che non fanno un cinquantaseienne) per una bella. Che poi andando a memoria, non la ricordo tutta sta bellezza, ma questo non si dice (con gli anni è migliorata, casomai stesse leggendo). In sostanza, tre su quattro vengono rifiutati. Sì, sono tra i tre anche io. Quella poesia non la ricordo e non l’ho trovata (dovrei cercarla, da qualche parte deve stare). Però ricordo che lei fu emozionata nel sentirla. Se uno più uno fa due, non le piacqui io, probabilmente. Anche se lei se ne uscì con la frase “sei carino, ma non mi piaci” (frase che mi avrebbe tormentato per un po’ di tempo). Non mi convinse appieno, questa finta filosofia dell’addossarsi le colpe. Da allora mi sono ripromesso di non scrivere più poesie. Ma visto che sono uno che le promesse non le mantiene (specie quelle che vanno contro se stessi), ho continuato e continuerò. Ma resto convinto dell’idea che chi produce arte debba condividerla nel migliore dei modi. Ecco, tutto questo che ho scritto non mi piace. Adesso cancello.