Lavoro prezioso: il maestro ai sopratitoli
L’uso dei sopratitoli negli ultimi trent’anni ha rivoluzionato il modo di ascoltare e partecipare da parte del pubblico al teatro dell’opera. Questa figura professionale tecnologica e nascosta, questo professionista: il maestro ai sopratitoli è colui che trasforma in parole da leggere e cioè comprensibili ai tanti, quelli che per molti sono solo gorgheggi ed acuti incomprensibili.
L’opera lirica ha subito diverse trasformazioni sia per quanto riguarda i titoli di cartellone, per le innovazioni registiche o quelle manageriali ma io credo che l’evento che ha più profondamente modificato la storia della recezione del teatro d’opera nell’ultimo trentennio è l’uso sempre più diffuso dei sopratitoli.
E’ sufficiente semplicemente alzare lo sguardo al boccascena, e fissare quelle due, tre righe di testo luminoso che sovrastano i cantanti e si compie l’essenza della trasformazione.
I sopratitoli hanno reso il tempio della musica elitaria fruibile anche a coloro non a proprio agio con i libretti d’opera.
All’inizio il cammino intrapreso per raggiungere questo traguardo è stato lungo e tortuoso perché gli addetti ai lavori e i critici storcevano il muso, restii a trasformare il teatro d’opera in una forma d’arte condivisa, dimentichi che l’origine della stessa era proprio una esperienza musicale partecipata.
Fino ai primi anni ’70 era d’uso in Italia cantare opere straniere tradotte in italiano. Gounod, Bizet e lo stesso Wagner venivano eseguiti con una traduzione che in alcuni casi snaturava l’essenza primaria del testo concepito dai librettisti che lavoravano in sinergia con il compositore.
Il pubblico in sala si è abituato a questo movimento ritmico degli occhi per l’intera durata dello spettacolo
La vecchia scuola dei cantanti accolse mal volentieri questa nuova usanza, consapevole che la loro tecnica vocale tutta incentrata sul fraseggio e la perfetta dizione rendesse vacuo l’uso delle didascalie. D’altronde i cantanti stranieri cantavano e cantano perfettamente in lingua italiana, l’unica universalmente riconosciuta quale lingua della musica.
Il pubblico in sala si è abituato a questo movimento ritmico degli occhi o dell’intera testa ogni dieci, venti o trenta secondi, per l’intera durata dello spettacolo, utile a gustare nella sua interezza la rappresentazione.
L’opera lirica è musica e parole, è una storia che si sviluppa attraverso i dialoghi (duetti), le dichiarazioni d’amore, morte o odio (arie e romanze) e ha il suo apice nei momenti corali: perdere alcuni passaggi dell’intreccio per la mancata comprensione del testo significa fermarsi ad un ascolto superficiale.
Abbiamo incontrato Simone Piraino, maestro ai sopratitoli presso il Teatro Massimo di Palermo
Il tuo incontro con il mondo dell’opera lirica?
Durante i miei studi musicologici ho sempre fatto fatica con l’opera lirica: la ritenevo uno spettacolo appartenente ad un mondo passato e, dunque, lontano dalle attese e dalle necessità dell’uomo contemporaneo. Invece, devo essere sincero, mi sbagliavo enormemente. L’opera lirica ha quel quid che stupisce e affascina il pubblico di tutte le età. È straordinario vedere i giovanissimi, insieme ai meno giovani, restare a bocca aperta di fronte ad uno spettacolo che, citando Wagner, definirei davvero totale: musica, teatro, danza, pittura e architettura; l’opera lirica è qualcosa di magico che unisce tutte queste arti sorelle.
Dunque, quanto è attuale l’opera, oggi?
Molto. Moltissimo, direi. Non soltanto per la qualità della musica, unica, o per l’attualità di alcuni libretti. In un momento di crisi economica come quello odierno, l’opera lirica è probabilmente l’unico spettacolo musicale colto che, con dovute eccezioni, permette incassi non indifferenti.
La tua prima opera come maestro ai sopratitoli?
La mia prima opera è stata Orphée et Eurydice, ovvero la versione fatta da Hector Berlioz dell’Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck. Un’opera splendida: drammatica e al contempo passionale. Mi è piaciuta molto la coreografia di Frederic Flamand: esprimeva, con la stessa intensità del canto, il dramma vissuto da Orfeo.
Quali le tue ansie, quali le paure?
Partiamo col dire che lavorare al Teatro Massimo è un sogno e credo lo sia per tutti i fortunati, come me, che hanno la vocazione musicale. Io ho studiato Musicologia, Organizzazione dello spettacolo e Composizione e, sin dall’inizio dei miei studi ho sempre sperato che la mia passione musicale incrociasse, in qualche modo, la strada del nostro amato Teatro Massimo. Dopo la laurea, devo essere sincero, avevo perso questa speranza. Ma fortunatamente esiste un “Direttore d’orchestra” che dirige la vita dei suoi “musicisti” meglio di come essi stessi possano immaginarla. E così mi sono ritrovato a lavorare in Teatro e, nonostante le ansie e le paure dovute alla resa, alla responsabilità (che è tanta!), sono tranquillo: è un lavoro che mi piace, è formativo e mi aiuta a comprendere meglio tutto ciò che ho studiato.
Alcuni aspetti tecnici del tuo lavoro?
Così come per un direttore d’orchestra, la parte più difficile è quella preparatoria. Bisogna studiare e cercare di capire dove è opportuno tagliare le frasi, cambiare le slide o dare il buio. Dal mio lavoro e dalla mia resa dipende il coinvolgimento del pubblico e di conseguenza l’amore per l’opera, il teatro e in generale la Bellezza! La vita mi ha insegnato a vedere tutto, anche il mio piccolo lavoro, in un’ottica più grande. È molto importante seguire con attenzione la musica così da riuscir a cambiare la slide nel momento esatto in cui il cantante inizia il suo intervento. E forse questo è l’aspetto più difficile, ovvero l’attenzione costante per tre ore di opera moltiplicata per le varie prove e le sette recite.
Il rapporto con il direttore d’orchestra e con i colleghi del Teatro?
Il direttore d’orchestra non può che essere un punto di riferimento per il maestro collaboratore ai sopratitoli: per quanto dicevo prima, quasi sempre, prima di cambiare la slide, guardo la bacchetta del direttore e, come fossi un orchestrale in buca, aspetto il suo attacco. Così, pur con mansioni diverse rispetto al musicista o al cantante, seguo la partitura e mi sento parte integrante dell’opera. Per quanto riguarda i colleghi, devo dire che ho conosciuto molte persone, come il Sovrintendente (Francesco Giambrone) ad esempio, ma anche il Direttore di Programmazione (Giovanni Mazzara) e altri che mi hanno accolto bene: credo sia dovuto a un’unità tra chi lavora non solo in Teatro ma soprattutto per il Teatro e la città.
Cosa vedi nel tuo futuro?
Intanto mi vedo “Maestro collaboratore ai sopratitoli” del Teatro Massimo! È un lavoro che mi piace sempre di più e mi auguro possa continuare a lungo. Ultimamente, più che alla musicologia vera e propria, mi sto dedicando all’Organizzazione dello spettacolo e alla Composizione e, sia nell’uno che nell’altro campo, sto avendo gratificazioni inaspettate.
Ma non mi preoccupo: vivo la realtà per ciò che è: un dono!
Come dicevo prima, c’è un direttore d’orchestra molto più saggio di me, piccolo musicista…