Un’insegnante senza parole
Io amo il mio lavoro.
Ecco, l’ho detto. L’ho scritto nero su bianco.
Io amo ciò che faccio e sono felice tutti i giorni di svegliarmi con l’idea di poter svolgere la mia attività.
La mia occupazione mi spinge a vincere la mia pigrizia mentale, quella sorta di coma o letargo o limbo in cui racchiudo molti spazi della mia vita, lasciandoli da soli, nascosti, in silenzio, separati, quasi rapiti dal resto dei momenti.
Ho scelto il mio lavoro, anzi lui ha scelto me, mi ha rincorsa, cercata, spronata, letteralmente tirata fuori dalle trincee. Ha sfondato la porta della mia insicurezza, mi ha armata come un cavaliere alla conquista della sua terra, mi ha spinto a dare un senso a tutto ciò che è vita.
Io sono una insegnante, un professore, un docente.
Io faccio l’insegnante, ma prima di ogni cosa mi sento un’insegnante perché continuamente cerco di fornire chiavi di lettura, di dare strumenti per sciogliere i punti ai tanti interrogativi del sapere, di definire metodi per meglio interpretare il mondo, insomma cerco di lasciare un segno eterno di me.
Io faccio il professore, anzi lo sono, perché continuamente professo il piacere del sapere, la pienezza che esso dà, la cultura e la missione di rendere migliore il nostro essere umani. La pace che si raggiunge quando si può comprendere la realtà. Io sono una docente, forse perché il verbo doceo mi richiama alla mente la radice di dare, ma senza ricevere o meglio senza aspettarsi una ricevuta, anche se quotidianamente i miei alunni mi consegnano molto più di quello che do.
I miei allievi negli anni mi hanno mostrato così tanti lati di me (e chissà quanti ne verranno) da farmi continuamente mettere in discussione. Fare questo mestiere, o meglio essere questo mestiere, ti fa sentire come un naufrago in balia di onde anomale, non improvvise ma comunque pericolose, senza un baricentro eppure sempre a galla. Nulla ti può scalfire, nessuno può demolire la tua autostima e l’importanza che tu per primo dai a questa arte maieutica.
Non ti scoraggia un sistema lento e stantio, la mancanza di risorse, il doversela cavare con poco per riuscire a tirare fuori tanto, il sentirsi continuamente giudicati e poco rappresentati. Tu vai avanti, ti arrangi, ti aggrappi alla speranza che quegli occhi davanti a te, quelle bocche aperte in attesa di qualcosa di buono e curioso, un giorno, loro sì, salveranno il mondo.
Negli anni ho osservato tanti volti, alcuni solo visti, altri invece mi sono rimasti così dentro che a volte senza accorgemene mi ritornano in mente senza alcun motivo.
Io amo il mio lavoro e non saprei essere altro, ma sono bloccata e non c’è nulla da fare.
Prof, l’Italia è un paese legale?
Per chi, come me, ha la fortuna di fare il lavoro più coinvolgente al mondo, non ci sono giorni in cui puoi abbassare la guardia, mettere un cartello e scrivere: Non ci sono. Non abbiamo qualcun altro che possa timbrare il cartellino per noi!
I ragazzi chiedono, ragionano, collegano e poi ti fanno domande del tipo: Prof, l’Italia è un paese legale?
E tu non sai cosa rispondere. Ti sforzi di rimanere impassibile, di raccontare un’altra verità rispetto a quella che li circonda, una verità che esiste, che non fa notizia, che non si mostra. E sbaglia. Perché chi non si mostra, non c’è (forse!!).
Allora racconto ciò che di bello c’è nel nostro Paese, quello per cui dovremmo andare orgogliosi, a testa alta. Le lotte quotidiane delle persone oneste, che non rincorrono nulla se non i propri sogni, fatti di terra e marzapane, proiettati in un mondo parallelo dove i padri non tradiscono i propri figli, dove il bene comune è obiettivo da perseguire e non da incassare. Racconto del coraggio di molti uomini, che con tanto impegno e pochi mezzi, riescono a vincere piccole battaglie di civiltà, anche se poi devono ripararsi dal fango che gli viene lanciato addosso. Racconto dei libri, della scrittura, del sapere e del coraggio che ciascuno dovrebbe avere nell’usare il proprio intelletto.
Chi ha generato, partorito una società così bieca, volta solo all’egoismo, al potere personale, all’arricchimento a discapito dell’altro?
Ma di chi sono figli questi uomini e queste donne? Chi ha generato, partorito una società così bieca, volta solo all’egoismo, al potere personale, all’arricchimento a discapito dell’altro? Se rifletto, le colpe sono molteplici e ciascuno dovrebbe capire che di certo questo tipo di società che abbiamo costruito non è figlia del sapere, dell’istruzione e della civiltà illuminata. I pensieri si accavallano, si rincorrono.
Vorrei dire tante cose, ma non trovo le parole, forse perché non ce ne sono.
Io sono un’insegnante.