Parlare di cibo senza parlare di EXPO (o quasi)
Ripartiamo da dove ci siamo lasciati.*
Si discuteva, come spesso ultimamente, di gourmet e di fast food nella sfida pubblicitaria di McDonald’s. E poi vi avevo promesso che avrei parlato di un libro che con il gourmet non c’entra proprio niente, che parla di cibo prima che il gourmet esistesse nella maniera stereotipata in cui esiste oggi. 2007, data di pubblicazione del libro di Giorgio Taborelli “Piccolo libro dei cibi”.
Oggi inaugura l’EXPO: proverò a parlarvi di cibo e alimentazione senza parlare dell’esposizione. Ardua sfida.
Il libro mi è piaciuto come mi piacciono tutti i libri carichi di aneddotica e curiosità da sfoggiare per solleticare le menti. A guardare la proposta editoriale odierna, si impazzisce: anche le case editrici non si sono fatte sfuggire il richiamo culinario di EXPO. Addirittura Ravasi e Bergoglio hanno scritto libelli dal titolo “Siamo quel che mangiamo?” e “Il Dio che ci nutre”: scelta non casuale, suppongo.
Eppure, questo saggio di Taborelli rimane discreto nella sua essenzialità. Capitolo dopo capitolo, prende in considerazione la carne, il pesce, i crostacei, le uova, i latticini, i cereali. E ne racconta la storia, piccole curiosità, usanze rinascimentali e medievali.
È stato interessante leggere il libro proprio prima di gustare, al Teatro dell’Orologio, “Note di cucina”, pièce che tutto e nulla ha a che vedere con esso.
Sapevate, per esempio, che i romanissimi supplì pare siano chiamati così per scimmiottare la parola francese di surprise? Probabilmente no, ma come altro definireste la mozzarella filante che trovate all’interno? Come dare torto a chi si è sorpreso mangiandolo per la prima volta!
C’è poi il frumento, anche, che mi ha fatto sorridere: si suppone che la sua denominazione provenga dal latino frui, godere. E qui si capisce molto sull’amore degli italiani per i primi piatti.
E le erbette, o biete? Chi sapeva che non si chiamano così perché simili all’erba ma che il loro nome deriva dall’olandese erdbete, ovvero bietola di terra?
Leggendo scopriamo poi che l’agrodolce, prima detto dolcefforte, era portato in tavola per mostrare al padrone di casa quanto il cuoco fosse in grado di soddisfare qualsiasi sua voglia e vizio, dando grande sfoggio di virtuosismo. Ecco quindi il pollo arrosto con salsicce ed amarene piccanti, la cacciagione unita a pere sciroppate, marmellata, ribes rosso, buccia di arancia candita e senape il polvere, il tacchino con cipolla, burro, scorza di agrumi e liquore Curacao.
Si richiama inoltre il discorso noto del pane. Nello specifico, il tipo che adesso viene più richiesto sul mercato dagli amanti del bio: quello ai cereali, integrale o in qualche modo scuro e preparato con farine non raffinate era il pane che prima veniva considerato assolutamente di serie B rispetto al più pregiato pane bianco. Tanto deprecabile è il “razzismo” di secoli fa, quanto la moda attuale. “Non è moda, è gusto”, si potrebbe opinare. Eppure, per tornare al presente, l’esperimento di McDonald’s ci spiega quanto il nostro gusto sia influenzato e influenzabile dalle tendenze. E se non basta il suddetto episodio, il concetto è ben spiegato in questo documentario, di cui consiglio la visione a chi ha una minima dimestichezza con il francese: Tous Manipulés.
Un’ultima chicca, per poi rimandarvi alla lettura integrale del libro di Taborelli: prima che le patate venissero considerate un alimento, Luigi XVI ne utilizzava i fiori per ornarsi il vestiario e la regina per decorare le sue folte chiome. Ve li immaginate? Per fortuna arrivò poi Parmentier (1737-1813) che si azzardò a portarle in cucina. Ed ecco quella goduria che oggi in Francia chiamano Hachis Parmentier.