Khoma
Martedì. Guardo dalla porta-finestra il cortile della scuola dove lavoro. Piove parecchio, e menomale direi. Una bella giornata mi avrebbe solo reso più nervoso, non potendomici rispecchiare oggi. La mia settimana, diversamente da quella dei più, comincia di martedì. Con calma. La stessa calma che mi fa arrivare sempre tardi a lezione, la stessa calma con cui entravo nell’acqua del mare, stando attento ad ogni minimo schizzo che m’avrebbe colto prima di immergermi, mentre gli altri affianco a me si tuffavano spavaldi. La stessa calma, estrema, con cui entro nei rapporti sentimentali. “Se c’è una cosa che so fare bene, in questa vita, è farmi aspettare. Fatti i conti, lo so fare talmente che bene che poi non arriverò.” (P. Sorrentino, Hanno tutti ragione).
“Se c’è una cosa che so fare bene, in questa vita, è farmi aspettare. Fatti i conti, lo so fare talmente che bene che poi non arriverò.”
All’inizio mi sentivo utile, ogni minimo progresso era una gioia per me: riportarlo in classe con i compagni, riuscire a farlo separare – anche se solo per pochi attimi – dalle penne da cui è ossessionato. Anche solo semplicemente vederlo sorridere tranquillo era un gran progresso per me. Chiaramente più si migliora e più ci si avvicina al limite, un limite purtroppo dettato da una patologia. Così le giornate hanno cominciato ad essere sempre più uguali tra loro: la lezione di matematica alla prima ora, il chiacchiericcio dei colleghi, il suo sguardo perso nel vuoto. Chissà cosa sta pensando.
Mi ci specchio in quello sguardo, in quel volgere gli occhi da qualche parte per il solo fatto di averli, degli occhi. E invece lo sguardo della mente è altrove, è dentro di essa. La scruta, la studia, cerca di capirne il senso, di far luce sulle ombre. Niente, come concentrarsi su ogni singolo pixel di un’immagine senza però riuscire a vederla nella sua interezza. E non è colpa di un lavoro che sta diventando noioso. Forse ha più a che fare con la mia stanza sempre in disordine, con l’ultimo boccone che lascio sempre nel piatto, con il tollerare sempre meno tutto il casino che fate e che mi disturba i pensieri, sì, voi, che avete sempre qualcosa da dire e non comunicate mai niente. Esibizionisti.
Forse ha a che fare col mio bisogno di qualcosa che contenga il caos che ho dentro, di un piacere che duri più di un momento, di qualcosa che non mi costringa ogni giorno a indurmi quell’intorpidimento dei sensi che mi fa sentire come se fossi in coma, pur di non sentire i discorsi che vorrebbero farmi credere che questa è vita e io sono vivo. Io non sono né vivo né morto. Sono una via di mezzo. Fermo al centro di una scala di grigi, incerto sulla direzione da prendere. In balia dei venti e del loro soffiare. Spero, un giorno, nella direzione giusta.
“Per farti un esempio, sappi che io ho la necessità di vedere il cielo intero, di sentire tutte quante le direzioni del vento, di poter aprire la porta e raggiungere un bosco di notte quelle poche volte in cui faccio fatica a prender sonno. Ho bisogno di vedere i flussi di acqua corrente, di ricordarmi che sono piccolo così anche i miei problemi sono piccoli e risolvibili, così non devo a tutti i costi lanciare accuse a me o ad altri, perdere tempi con le colpe o i meriti.”
Uochi toki – Il cinico