Io sono la fame
Se Gustave Flaubert poteva affermare: Madame Bovary c’est moi, se Will Smith poteva dire: Io sono Leggenda, noi possiamo affermare fieramente: Io sono la Fame.
se Will Smith poteva dire: Io sono Leggenda, noi possiamo affermare fieramente: Io sono la Fame.
Siamo coloro che guardano con sospetto chi dice:” Io a colazione solo un caffè, sai, ho lo stomaco chiuso”. Un sospetto che nasce dal non comprendere il significato di quelle due parole associate in maniera innocente: stomaco e chiuso. Due mondi lontani anni luce, due rette parallele che non si incontreranno mai nell’infinito delle nostre vite.
Abbiamo uno stomaco mai pago di quanto appena ingerito, mai domo di fronte all’ennesima pizzetta, mai spaventato dal dessert dopo antipasto primo secondo contorno e frutta. Una pancia spalancata sul mondo e che chiede al mondo di essere ascoltata ventiquattro ore al giorno, anche dopo il cenone di Natale, anche dopo il pranzo. Sempre.
Vittime di una fame silenziosamente rumorosa e sempre presente che racconta al mondo, e a noi stessi, una storia che vuole solo essere ascoltata e che mettiamo a tacere a suon di calorie.
Ascoltiamola questa fame, ascoltiamo la nostra pancia che ha tanto da dire e da dare, e non solo da prendere, se è vero, come è vero, che è dotata di un cervello in grado di guidarci nelle scelte, prima ancora che il cervello superiore si sia accorto di qualcosa. Cosa vorremmo inghiottirci insieme a quel bel pezzo di Sacher torte così spudoratamente esposta in vetrina che di sicuro se l’è andata a cercare la nostra morbosa attenzione?
Chi ci ricorda quella delizia vestita di cioccolata e ripiena di marmellata?
E quel cucchiaio di Nutella miracolosamente comparso tra le nostre mani insieme ad un ennesimo cono doppia panna con granella di nocciole e topping al cacao?
Se tra le pieghe della goduria del palato aguzzassimo un po’ la vista, riusciremmo a scorgere il volto dell’ultima persona che ci ha fatto arrabbiare, che non abbiamo affrontato e che abbiamo preferito inghiottire insieme ad un bel boccone dolce, innaffiato da un bicchiere di bile con ghiaccio.
In quel cucchiaino di gelato, morbido e dolce, possiamo assaporare l’amaro di tutte le cose lasciate in sospeso e che giacciono esanimi sulle scrivanie della nostra esistenza. Nella torta, tra un pezzetto di mela e un granello di zucchero, fa capolino il nostro superiore a ricordarci di tutte le nostre mancanze, e, sull’ultima pizzetta infilata in bocca, troneggiano imponenti tutte le nostre ansie.
In un circolo vizioso di goduria culinaria e sconforto esistenziale, l’unica cosa a cui riusciamo a prestare attenzione è questa fame che ci distoglie da noi stessi.
Quel cibo che riempie un vuoto fisicamente immaginario ed immaginato, nasconde tra sfoglie, zucchero, sale e olio, volti e storie che paradossalmente non riusciamo a digerire. Questa fame atavica che ci spinge a mangiare sempre di più e che reclama attenzione, forse tenta solo di farsi ascoltare da noi.
Le parole che ci diciamo, insieme a quelle che cerchiamo di mettere a tacere, insieme a tutte le ansie, le tristezze e le arrabbiature, urlano dentro una tazza cioccolata calda. Sono parole amare, che cerchiamo di addolcire con un ciuffo di panna montata che passa dalla nostra bocca a riempire i nostri vuoti.
In realtà noi non siamo la nostra fame, non siamo quello che mangiamo, ma mangiamo quello che davvero siamo.