L’Odissea dei migranti, persone prima di tutto
Bilal non è un romanzo. Bilal non parla di immigrazione clandestina o di migranti per sentito dire. Bilal, viaggiare lavorare morire da clandestino edito da Rizzoli è un reportage estremamente coraggioso che parla di persone. Persone con storie alle spalle, sogni, paure e speranze che le spingono ad affrontare un viaggio incredibile, dal cuore del continente africano fino alle coste europee, forse.
Bilal è l’identità sotto la quale si cela Fabrizio Gatti, corrispondente dell’Espresso, e con la quale realizzerà un reportage incredibile. Gatti infatti parte dal Senegal per compiere il percorso che migliaia di persone compiono, prima stipate su dei camion attraverso il deserto, senza acqua né cibo. Poi, dalle coste della Libia sui barconi verso le coste italiane.
Gatti, complici la conoscenza dell’arabo e i tratti mediterranei, riesce persino a farsi rinchiudere in un CIE (centro di identificazione ed espulsione), confondendosi fra i tanti migranti che sbarcano a Lampedusa. In questo modo ci regala un documento unico, completo e realistico di ciò che avviene davvero, dall’inizio alla troppo spesso tragica fine di questi viaggi. Chi sono gli attori di questa tragedia troppo spesso annunciata? E soprattutto chi tira le fila della vita e della morte di migliaia di persone?
E qualcuno rimane incastrato in una terra di nessuno, senza scampo, senza la possibilità di affrontare le acque del Mediterraneo, né quella di tornare indietro, a casa.
E forse facciamo fatica a renderci conto di quanto diversi fra loro siano gli stati africani, di quanto sia difficile per un cittadino del Mali per esempio, o addirittura del Bangladesh, ritrovarsi in un paese estraneo come la Libia, senza soldi, senza casa, senza nessun contatto se non quello con i trafficanti che lo hanno portato lì sui camion.
I più fortunati vengono messi in contatto con gli scafisti e rientrano in liste d’attesa lunghissime per partire. Molti di loro il mare non l’hanno neppure mai visto. Hanno visto molto di peggio però, cose che noi dal nostro salotto o dallo schermo del nostro computer non possiamo neppure immaginare. Cose che forse qualche nonno lungimirante ci ha raccontato, una volta.
Cose talmente orrende e senza via d’uscita da spingere persone normali ad abbandonare la propria casa – quando c’è ancora – la propria famiglia – quando c’è ancora – e la propria terra, per affrontare il deserto e poi l’enorme massa scura. Il mare, un mare gigantesco e ostile, che io personalmente non riesco ad attraversare neppure su di una nave di lusso. Queste persone, i migranti, lo attraversano invece su mezzi che è ottimistico definire zattere. E lo fanno in trecento, in cinquecento, in mille.
Mille persone. È la cifra delle vittime del naufragio del 19 aprile. Non è preciso, in realtà sono circa novecento, ma novecento sono quasi mille. Un numero enorme. Sono le cifre di una guerra. Novecento persone sono circa dieci autobus strapieni nell’ora di punta, per intenderci.
Novecento persone, non migranti, non immigrati, non clandestini, non delinquenti.
Novecento persone, non migranti, non immigrati, non clandestini, non delinquenti.
Se siamo fortunati, lo vedremo arrivare in un paese martoriato da una dittatura appena passata e da una guerra civile ancora in corso, dove bande di ribelli e terroristi fanno da padroni.
Lui è lì, solo. E guarda un’immensa distesa d’acqua che sembra infinita. Lui che l’acqua magari non riusciva nemmeno a vederla uscire da un pozzo. Nella nostra mente noi sappiamo che al di là di quella distesa troverà una nuova terra, una nuova speranza, una nuova vita. E magari sorridiamo, perché lo sappiamo al sicuro.
Ma lui a quelle coste non ci arriverà mai. Annegherà molto prima. Avvinghiato ad altre novecento persone, annaspando, e cercando di resistere fino all’ultima particella d’aria nei polmoni. Ma non c’è nulla da fare, quando il mare ti avvolge e ti trascina verso le sue viscere, non puoi fare altro che lasciarti andare.
Ma non c’è nulla da fare, quando il mare ti avvolge e ti trascina verso le sue viscere, non puoi fare altro che lasciarti andare.
Ora immaginiamo che tutto questo non lo sapremo mai. Non sapremo mai della sua morte e di come è avvenuta. Probabilmente noi, il nostro fratello, amico, o padre, continueremo a immaginarlo là, nella sua nuova e accogliente terra. E desidereremo raggiungerlo, magari.
Bilal è un reportage unico sul fenomeno più imponente del ventunesimo secolo ma, soprattutto, sui migranti nella loro identità di persone. Con sentimenti, ricordi, paure e speranze. Gatti regala una voce a chi non ce l’ha e specialmente a chi l’ha persa lungo la strada verso una vita che immaginava migliore o, nella maggior parte dei casi, semplicemente verso la possibilità di una vita, e basta.