Vieni con me, ti prego.
Vieni con me, ti prego. Non senti come ti chiamo? Ce la sto mettendo tutta, miagolo con tutto il fiato che ho. Lo sai che i gatti per comunicare tra loro non hanno bisogno di parlare? Non serve emettere versi, il miagolio lo riserviamo solo a voi umani; e non ci capiamo lo stesso.
Ma stavolta devi comprendermi, amico umano.
Ti prego, vieni con me.
Ti cammino fra le gambe, miagolo come se stessi morendo, voglio la tua attenzione, voglio che tu mi segua.
Non mi capisci, non ancora.
Mi insulti perché rischi di cadere inciampando nel mio corpo, ma non m’importa. Non ti voglio fare del male, io ci sto attento, non faccio niente per caso. Al contrario di voi, che agite senza curarvi delle conseguenze, a volte calpestando i più piccoli.
È per questo che cerco di attirare la tua attenzione oggi. Devo farti vedere qualcosa e ho bisogno di te, del tuo aiuto. Prima che sia troppo tardi.
Vieni con me, ti prego.
Salto sul tavolo mentre stai mangiando. Ti innervosisci ancora di più e mi ributti giù con una manata.
Lo so che sono fastidioso. Ho adottato il miagolio in modalità spaccatimpani proprio perché tu non possa fare finta di niente. E perché non creda che voglia giocare o mangiare il croccantino. Voglio che tu mi segua, accidenti, è urgente!
Di nuovo mi arrampico sul tavolo, cerco la tua mano con la testa, mordo la manica della tua maglietta e tiro con tutte le mie forze.
Salto giù e ti guardo. Miagolo ancora, angosciato.
Ti viene un dubbio finalmente. Ti alzi e mi segui. Forse sei ancora convinto che voglia mangiare, ma io oltrepasso la ciotola e mi dirigo verso la porta.
Vedo che fai un sorriso. E già, pensi che me ne voglia andare a spasso, come al solito. Lo so, sono un vagabondo, non amo molto restarmene nella tua casa. Mi hai portato qui che ero molto piccolo, eppure ero già indipendente. Ho sempre fatto quello che ho voluto e tu mi hai rispettato. Mi hai lasciato andare con la fiducia che sarei sempre ritornato. E così è stato. Io e te stiamo bene così. Poche smancerie, molto rispetto, tanto affetto.
Non faccio molte fusa, ho il mio orgoglio, ma quando le faccio hanno valore doppio e sono solo per te.
Proprio perché sono sempre stato libero di andare e tornare conosco il mondo là fuori. È un pericolo. Per noi gatti, soprattutto, e per tutti. Sembra che debba per forza vincere il più forte, il più prepotente, quello che se ne frega degli altri. Cosa c’è da vincere, poi, non lo sa nessuno. La vita non è una gara. Tanto meno da aggiudicarsi a scapito di altri.
La vita non è una gara.
Oltrepasso la porta e mi volto a guardarti. Sto ancora miagolando. È quasi un lamento, il mio, continuo, assillante, penetrante.
Vieni con me e capirai perché.
Credo di essere riuscito ad assumere uno sguardo disperato. L’orgoglio felino fa sì che mai ci abbasseremmo a mostrare i nostri bisogni. Chi lo ha mai visto un gatto con la disperazione nelle pupille dilatate? Ci può essere sublime indifferenza, altezzoso distacco, ci può stare l’enigma assoluto. Certo, ci può stare pure la paura, perché anche noi abbiamo paura, basta un rumore secco che siamo subito in fuga; basta l’odore di medicine nello studio del veterinario che scatta il terrore. Ma la disperazione no, quella nessun umano l’ha vista. Fino a oggi. Perché tu, amico umano, hai ora questo maledetto onore.
Ho paura, sono disperato. Ma non per me.
Vieni con me e capirai.
Leggo lo stupore sul tuo viso per questa scoperta. Voi umani a differenza di noi gatti siete meno bravi a nascondere le emozioni. Io ho imparato a decifrarle tutte.
E finalmente afferri che c’è qualcosa che non va e mi segui.
Vorrei correre per fare prima, ma temo che se vado troppo veloce tu mi lasci perdere, mentre io ho bisogno di te e perciò vado avanti, mi fermo e ti aspetto, vado avanti, mi fermo e ti aspetto.
Ti conduco a qualche isolato da casa nostra. Ci sono giardinetti, qui, che ogni tanto frequento nei miei vagabondaggi.
Mi sono fatto amico di molti umani, semplicemente andandogli incontro e lasciandogli un po’ di pelo addosso. Io sono orgoglioso, non addomesticabile, ma sono anche socievole. Spesso vago di finestra in finestra, di porta in porta, salutando tutti con la coda alta. Qualche umano mi dà anche un bocconcino, ma mica è per quello che mi comporto così. Semplicemente sono un tipo curioso, mi piace scoprire il mondo e andare d’accordo con tutti.
Questi giardinetti appartengono a case molto affollate. Sono tanti gli umani in questa zona. E tante sono le loro macchine, costrette in spazi ristretti che richiederebbero prudenza. Invece i mezzi a motore chissà perché credono di avere diritto di precedenza su chiunque.
Vicino c’è un campetto non coltivato, sembra non appartenere a nessuno. Qui si è sviluppata una grande famiglia di gatti. Vanno tutti d’accordo fra di loro. Sopravvivono perché molti bambini e tanti umani portano da mangiare. In cambio hanno la zona disinfestata dai ratti. Si sa, i luoghi abbandonati sono alla mercé di creature difficili. I gatti sono nati per questo, per combattere topi e ratti, se qualcuno li premia, tanto meglio.
È proprio in questa zona che ti sto conducendo, amico umano. Ho il cuore in gola. Perché ci hai messo così tanto a capire quello che ti volevo dire? Perché voi umani non avete il dono della comprensione del nostro linguaggio senza parole?
Adesso vado più in fretta e già la vedo, laggiù. La raggiungo e lì mi fermo, accucciandomi di fianco a lei. È la gatta più buona e più bella di questa grande famiglia. E porta dentro di sé i nostri cuccioli. Ha il pelo nero come la notte, ora macchiato di rosso. Se ne sta distesa su un fianco, per terra, sull’asfalto. Respira con affanno, la coda abbandonata senza forza alcuna.
La tocco con la zampa, con delicatezza, e lei riesce ad aprire quegli occhi così verdi da confondersi con l’erba del campo. Mi vede, ne sono sicuro, ma non muove un pelo.
Sto male io per lei.
La vedi, umano? Capisci ora perché volevo portarti qui?
Alzo su di te il mio sguardo azzurro che se è possibile è ancora più disperato di prima.
Una delle vostre macchine, umano, l’ha colpita in pieno. Andava di fretta, la maledetta fretta di spostarsi solo di qualche metro, di parcheggiare dietro quell’angolo anziché quell’altro.
E la mia amica stava passando giusto in quel momento, stava venendo verso di me, con la sua tranquilla fiducia nell’universo, con la placidità del suo essere presto madre.
Non so se la macchina l’abbia vista o no. So solo che ho sentito un colpo e ho visto il suo corpo, con dentro i nostri cuccioli, volare. Finire per terra.
ho visto il suo corpo, con dentro i nostri cuccioli, volare.
La macchina non si è fermata. Ha parcheggiato dove voleva e nessuno è venuto a vedere come stava la mia amica.
Ecco perché sono venuto a cercarti. Non sapevo da chi altro andare.
Solo tu puoi portarla da chi può guarirla.
Ti fermi, impietrito. Ti abbassi alla nostra altezza e cerchi di valutare la situazione. L’ho detto, io leggo sul tuo viso quello che provi.
Mi fai una carezza dalla testa fino alla punta della coda. Tasti il corpo ferito della mia amica. Lei alza ancora una volta il suo sguardo verde, apre la bocca come se volesse dire qualcosa solo a te. Io so qual è la sua richiesta: salva i miei cuccioli.
Resti inginocchiato, fai una carezza anche a lei. Ti cade un rivolo d’acqua dagli occhi; quando è così è una cosa triste, vero umano? Cosa vuoi dirmi?
Mi avvicino ancora di più alla mia amica e raccolgo il suo ultimo respiro. Non ce ne sono altri. Anche se la tocco con la zampa o con il muso, o le lecco il pelo intorno alla ferita, lei non reagisce.
Lei non c’è più.
Non ci saranno nemmeno i cuccioli.
Amico umano, continui a versare acqua dagli occhi. Si chiamano lacrime, vero?
Io non posso farlo. Vorrei tanto, ma non posso farlo. Non mi è concesso.
Vieni con me, ti prego.
Torniamo a casa.