Twin peaks
Twin Peaks l’ho seguito per intero, dalla prima all’ultima puntata. Ero una matricola all’Università. Le amicizie del liceo ancora forti, vigorose. Erano i tempi dei primi amori veri, seri, quelli fatti finalmente di sporadici letti condivisi e di sesso lento, ricco di parole, di promesse, di progetti. Si lasciavano libri aperti sulle scrivanie con matite consunte dal nervosismo dello studio a fare da segnapagina per la mattina seguente, lampade accese, domande dei genitori, sempre le stesse, che svanivano nella distanza mentre si scendeva lungo le scale per essere puntuali a casa di Anna. Arrivare presto era un obbligo. Niente cellulari. Per ordinare la pizza a domicilio bisognava essere presenti. Giusto il tempo di decidere, preparare i soldi per pagare il fattorino, aprirgli la porta, ritirare le scatole e slam, doppia mandata, chiusi al buio. Regola ferrea, i commenti solo durante le pause pubblicitarie.
Twin Peaks è stato un must per la mia generazione, diventò un chiodo fisso, ci si salutava chiedendosi chi avesse ucciso Laura Palmer, quell’angolo sperduto tra l’America del Nord e il Canada scatenò la fantasia di tutti
Adesso che sto in questo corridoio freddo, illuminato da una luce strana, né bianca né gialla, vorrei un po’ di quel calore, di quello che in questo istante ricordo come un rifugio. Twin Peaks raccontava la storia di una tragedia, di un lutto, iniziava dalla fine. Sì, un ossimoro narrativo. Iniziava dalla fine di Laura, una figlia adolescente, bella, brillante, una figlia come tante altre. Anche io ho avuto una figlia, è arrivata quando fummo stanchi di un letto sporadico, quando i progetti sussurrati divennero reali. Ne avevamo parlato tanto da ragazzi.
Il pudore nei confronti della nudità di una figlia inizia presto e vederti così mi spezza il fiato, mi imbarazza. Sono riuscito a dire qualcosa, un suono incomprensibile, un qualcosa che somiglia alla parola “copritela”
Sono calmo, almeno credo. Mi hanno iniettato qualcosa. Un donnone in camice bianco si allontana da me togliendosi un paio di guanti in lattice. Vorrei spegnare il cervello. Se vuoi il buio in una stanza, premi l’interruttore, il circuito elettrico si interrompe e tutto diventa scuro, inafferrabile, inesistente. Perché non posso farlo con il mio cervello? Perché l’attività elettrica continua a mettere in connessione i miei neuroni? Dove devo premere? La vedo l’elettricità nella mia testa, ne percepisco il colore porpora, lo sfrigolio, corre lungo i nervi, si scontra continuamente con i pensieri esibendosi in spettacolari scintilii, si sottrae ad ogni mio tentativo di annullarla. Sono calmo, sì calmo. Almeno credo. Ieri sera non pensavo di dovermi svegliare in questa mattinata anemica che non vuole saperne di prendere colore. Se qualcuno immagina l’inferno caldo e opprimente, si sbaglia. L’inferno è freddo, illuminato da una luce né bianca né gialla e puzza di formalina.
Non dovrei esserci io seduto qui. Dovresti tu pensare a cosa diventerebbe la mia carne da domani in poi, non è normale che io sia qui, non è naturale, è un paradosso biologico
Questa mattinata iniziata con una fine, la tua, non vuole saperne di prendere colore, diventa sempre più grigia. Ho freddo, un freddo che neppure un sole estivo potrebbe mandare via. Un freddo che proverò ogni giorno che il caso vorrà mettere tra me e la mia morte. Se fossimo indietro di venticinque anni, stasera sarei andato a casa di Anna. Avrei parlato con tua madre, le avrei detto di te, di quanto sarebbe stato necessario proteggerti. Se fossimo indietro di venticinque anni, stasera avrei guardato Twin Peaks alla tv ed avrei mangiato pizza in un salotto riscaldato da una stufa a gas fantasticando della bambina che saresti stata.