Due di Due, o dell’amicizia universale
Vorrei cominciare questa rubrica dedicata ai libri scrivendo di amicizia e, in particolare, dell’amicizia in età adolescenziale. Un po’ perchè ci siamo passati tutti, un po’ perchè chi di noi non ricorda con affetto e tenerezza le avventure vissute con i propri migliori amici?
Partirò con l’incipit di un romanzo di Andrea De Carlo, Due di Due, edito da Mondadori nel 1989 (e in seguito sia da Einaudi che da Bompiani). Ho letto questo libro moltissimo tempo fa e l’ho apprezzato, ma solo ora, quasi quindici anni dopo, lo capisco fino in fondo e riesco a sentirne nel sangue una riga dopo l’altra.
“[…] Ho le mani in tasca e il bavero del cappotto alzato, e cerco disperatamente di assumere un atteggiamento di non appartenenza alla scena, anche se sono uscito dallo stesso portone e ho fatto lo stesso percorso faticoso solo un quarto d’ora prima. Ma ho quattordici anni e odio i vestiti che ho addosso, odio il mio aspetto in generale, e l’idea di essere qui in questo momento.”
Vorrei cominciare così perché inizia così anche la mia adolescenza e quella di chissà quanti altri. Stesso bavero alzato, stessi occhi indifferenti sì, ma solo per finta.
ci riconosciamo in uno sguardo, in un riflesso, spesso così diverso da noi. Semplicemente un amico.
Due di Due è la storia di un’amicizia lunga una vita, quelle amicizie che nascono nel periodo più difficile, quando non sappiamo chi siamo eppure ci riconosciamo in uno sguardo, in un riflesso, spesso così diverso da noi. Semplicemente un amico, al quale ci leghiamo di mille fili inestricabili e al quale apparteniamo, più che a chiunque altro.
Due di Due è la storia di un’amicizia lunga una vita, quelle amicizie che nascono nel periodo più difficile
Due di Due è la mia storia, è la nostra storia. Di tutte le amicizie che ci portiamo dentro, che ci hanno plasmato, con le quali abbiamo lottato e riso e pianto e urlato, ma che ci appartengono come un braccio o una mano. Sono la nostra casa e, a volte, non ce ne accorgiamo finché non le perdiamo.
La perdita può essere preannunciata come la morte di Guido nel libro, o improvvisa, o solo metaforica; ma il suo significato non cambia poi molto.
Rimaniamo soli. Con noi stessi, con le nostre paure, privati del compagno fedele che ci ha fatto da eco per tanto tempo. Cresciamo, forse. O magari semplicemente iniziamo ad ostentare uno sguardo più sicuro e un passo più fermo, improvvisamente preoccupati di quello che il mondo penserà di noi.
E come Mario una volta solo sulla collina si accorge che era strano vedere una casa sola dove ce n’erano state due così anche io, dopo quindici anni guardo giù per la collina dei miei ricordi.
Vedo spazi vuoti, dove prima c’erano volti e voci amati e ho una stretta al cuore.
Ma vedo anche tante facce sorridenti, quelle che conosco meglio, e mi sento bene. Capisco che mi trovo nel posto giusto e mi sento ancora un po’ adolescente sì, ma intera.