Scarpe rosse
Alle scarpe rosse ho sempre associato una poesia. Quella di Joyce Lussu, dove un paio di scarpette rosse raccontano la vita strangolata di una bimba nel campo di concentramento di Buchenwald.
Poi ho scoperto che Scarpette rosse è anche un film del 1948 diretto da Michael Powell e Emeric Pressburger. La trama si snoda attorno alle vicende dei membri di una compagnia di danza. E sono stati poi molti, nel mondo del balletto, a riprendere questa espressione per nominare scuole o aziende del settore.
Ma prima di tutti c’è stato Hans Christian Andersen, lo scrittore danese che ha rattristato, eppure fatto tanto riflettere, i bambini di diverse generazioni. La fiaba Le scarpette rosse, che narra le sventure di Karen, una povera orfanella, risale al 1845.
Perché tutte le scarpe color vermiglio non rimandino a temi felici me lo sono sempre chiesta. E la spiegazione me l’ha data l’artista messicana Elina Chauvet, che con la sua installazione di zapatos rojos ha riempito la piazza di Ciudad Juarez, città ai confini tra Messico e Stati Uniti che dal 1993 è teatro di una climax ascendente di violenza sulle donne. Emarginate, rapite, picchiate, stuprate, uccise.
Ecco che cosa è il rosso. E’ il sangue. Non solo quello delle donne messicane, ma quello del doppio cromosoma X in tutto il mondo. Per questo, nel giro di pochi anni, le piazze e le strade del pianeta si sono riempite di calzature vermiglio. Per dire no, ma non solo il 25 novembre, giornata nazionale contro la violenza sulle donne, per dirlo tutti i giorni. Per questo ve lo scrivo oggi, in una calda domenica di aprile.
E quelle scarpe? Vezzo e desiderio di tante donne, arma di salvezza per scappare lontano di altre. Scarpe che non devono macchiarsi di rosso.