La mosca (rieducazione sentimentale di Moreau)
Federico Moreau si accingeva a varcare la soglia di casa Arnoux quando una mosca gli si parò davanti. Egli non reagì, rimase come immobilizzato nell’androne di casa senza idea di come ottenere la sospirata camera di Madame Arnoux. Era una mosca enorme, grande quanto e forse più delle parole di un grande romanziere francese.
Mi accarezzo il labbro inferiore con i denti, allargo le narici e distolgo l’attenzione dalla pagina per fissare il soffitto. Quindi riporto occhi, labbra, denti e narici alla situazione iniziale. La narrazione è interrotta, la prosa di Flaubert spezzata, il povero Federico ancor più inetto del suo solito.
Mi concentro sul testo: leggo la parola casa e poi il cognome Arnoux. In mezzo, però, ci sta qualcosa. Bene, si tratta di un paio di sillabe che non pregiudicano la comprensione del testo e io potrei tranquillamente proseguire, ma che insegnamento darei al personaggio principale, un tipino già non propriamente deciso sulle cose della vita? Sono trecento pagine che Federico tenta di dichiararsi a Madame Arnoux, duecento che gli dico: Ma buttati, cazzo, o la va o la spacca, sei a Parigi, vivi di rendita (e che rendita), alla più brutta t’imbriachi, vai a zoccole in qualche bordello di lusso e vomiti dal balcone vista Senna su Orleanisti, socialisti, lealisti, ex napoleonici e tutta la composita marmaglia che popola Parigi negli anni quaranta dell’ottocento. Insomma, ne faccio una questione di principio. Federico Moreau deve imparare a farsi meno seghe mentali. Suvvia.
Allora muovo il pollice a mo di ventaglio, soffio in direzione di Arnoux, scrollo il libro, ma non ottengo alcunché. Federico Moreau rimane impietrito nell’androne della grande casa del centro parigino. Pronuncio un delicato Ohi!, scuoto il volume con maggiore veemenza, quindi strofino la nuca sul cuscino, muovo le gambe sotto le lenzuola e dico tra me e me: non c’è speranza, se non è in grado di superare una mosca in un androne, tu pensa se nelle prossime duecento pagine potrà combinare qualcosa che non sia ciarlare di futili cose con altri perdigiorno pari a lui.
Vattela a prendere in culo caro Federico Moreau. Tu che raggiri tua madre convincendola di voler fare chissà che carriera e invece ti interessa solamente stare a Parigi a gozzovigliare e fare la corte alle mogli altrui, che fai l’amicone di stolidi mariti per fottergli le mogli, che manco ti decidi a prendere partito nella rivoluzione del ’48, che non disdegni le attenzioni di una ragazzina e che, quando finalmente ti deciderai, tra un centinaio di pagine, a dichiararti a Madame Arnoux, finirai per ingravidare tale Marescialla, un nome un perché, senza poi prenderti cura della povera creatura.
E allora sai che ti dico? Ci penso io a mandare via quella cacchio di mosca
Non mi rimane che infilarmi in qualche boulevard e chiacchierare di stronzate per una decina di pagine con qualche nostalgico del triumvirato, in attesa che Napoleone III tra un paio d’anni ci pigli per il naso a tutti. E se nel frattempo non mi lancio da qualche ponte sulla Senna (cosa che non farai, mi ha detto Flaubert) ci penseranno comunque i prussiani, tra una ventina di anni, a farmi un culo quadro.
Sarà una lunga notte. La luce è spenta e gli occhi chiusi, ma si ode un ronzio che non lascia presagire nulla di buono. Poi la mosca si posa sulla mia fronte. La immagino masturbarsi la proboscide a un paio di centimetri dalla mia tempia sinistra. Che mi voglia dire qualcosa? Apro le orecchie. Sì, posso udire qualcosa.
E’ lo spirito di Flaubert. Sì, proprio lui, il grande romanziere francese. Che ce l’abbia con me per aver maltrattato la sua creatura? Non penso. E allora perché mi chiede: lo sai dove si posano solitamente le mosche?