I concerti mancati
Lavoro e passione. In alcuni casi coincidono. In altri casi no e per tenerseli buoni entrambi, siamo costretti a fare salti mortali. Organizzare agende, appuntamenti con amici, inizi di relazioni più o meno sentimentali. Mettere da parte qualche spicciolo. Questo ruota attorno a chi, come me, ha una passione per i live, per i concerti. Andare ad un live significa partecipare ad un momento epico. Avviarsi ore prima ai cancelli, scambiare ricordi legati all’artista di turno, con sconosciuti, ma intenditori. Iniziare a cantare le canzoni già all’acquisto del biglietto. Pari epicità hanno i concerti mancati. Gli artisti che sembrano chiamarti come delle sirene. Ma tu no, proprio non puoi. Il lavoro, mancanza di fondi, ed altre coincidenze. Anche i live mancati fanno parte della nostra vita musicale, che lo vogliamo o meno.
P.V.
In certo senso cambiano la vita, non solo quelli a cui sei stato, ma anche quelli mancati. Di cosa parlo? Dei concerti.
Pari epicità, hanno i concerti mancati.
A me è capitato spesso, anche la scorsa estate con gli Eagles a Lucca. E capiterà quest’anno con Bob Dylan. I festival di musica più prestigiosi coincidono quasi sempre con le ferie. E tu non sei mai in città. E non è nemmeno il massimo dello scorno.
Pensate che nell’88 avevo comprato i biglietti per il concerto di Chet Baker a Monaco di Baviera. Non era ancora un anno che mi ero trasferita là. Ero molto giovane, e assetata di tutta la buona musica del mondo. Monaco mi sembrava il paradiso. Grandi nomi, fiumi di jazz, rock vero, i migliori interpreti della classica, ottimo funk. I biglietti di Chet Baker in tasca mi facevano sentire onnipotente. Vi rendete conto cosa può voler dire a 25 anni aver visto e sentito Chet Baker dal vivo? Una promozione alle sfere celesti della musica!
Poi, il 13 maggio 1988, a pochi giorni da quel concerto che doveva cambiarmi la vita, succede.
Apri un giornale la mattina dopo (a quel tempo internet manco c’era) e leggi. Chet sì è rovesciato giù da una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam, in circostanze alquanto oscure. Nella tua città non arriverà mai, e non lo vedrai mai più dal vivo.
Negli anni a venire, certo, di artisti con la A maiuscola avrò ad ascoltarne di veramente prestigiosi. Ma questa fine di Chet resta così amara. I concerti mancati non sono meno cruciali.
Un altro episodio piuttosto simile a un bluff ebbe a capitarmi con Oscar Peterson. Uno degli idoli. Ho sempre pensato che prima o poi ne voglio scrivere di Oscar Peterson. E’ un personaggio troppo incredibile. Comunque, quando seppi del concerto che avrebbe dato al Musikverein di Vienna il 21 Novembre 2003 col suo quartetto, il famoso concerto del ritorno dopo l’ictus che lo aveva colpito nel 1993 e costretto per molti anni alla lontananza dalle scene, mi trovavo proprio a Vienna per un concerto alla Musikverein. Ero lì, e scoprivo in diretta che sarebbe arrivato Oscar Peterson per un unico e favoloso concerto europeo (dal quale è stato fatto un gran disco, A Night in Vienna). Solo che io il 21 novembre del 2003 mi sarei trovata negli Stati Uniti, a Baltimore, per lavoro. E quindi, la posizione di privilegio che avevo in quel momento – avrei potuto comprarmi immediatamente i biglietti per il concerto di Oscar Peterson al botteghino della Musikverein – era del tutto inutile. Persino ridicola. Un altro concerto proverbialmente mancato.
Vabbè mi direte voi, sai quanti concerti ti sei persa anche solo per motivi anagrafici? I migliori.L’ultimo mitico concerto all’Isola di Wight, quello durante il quale un timido Leonard Cohen tentò di rabbonire gli spettatori un po’ troppo casinisti, senza poter evitare che la venue musicale venisse cancellata dall’anno successivo per colpa dei disordini, fu nel 1970. Avevo otto anni. Dubito che mi ci avrebbero mandato, se anche fossi stata così avanti da interessarmi per quel concerto (per quanto sia stata una bambina molto precocemente appassionata di musica, resta improbabile). Invece in quegli straordinari tre giorni dell’agosto 1969 in cui nelle campagne dello Stato di New York si svolse il festival di Woodstock, di anni ne avevo sette. Non ce lo vedo mio padre che mi porta là, magari vestita da piccola hippie. No, no, non era proprio il tipo!
D’altronde, se potessi scegliere di andare a spasso nel tempo per riprendermi indietro tutti i concerti mancati, il primo a cui vorrei assistere sarebbe il debutto della Wassermusik di Händel. La prima esecuzione si tenne il 17 Luglio 1717 in seguito alla richiesta di Re Giorgio I su una chiatta lungo il fiume Tamigi. Cinquanta musicisti suonavano in prossimità della chiatta reale, sulla quale il re ascoltava con alcuni intimi, tra cui le duchesse di Bolton e Newcastle, la contessa di Godolphin e George Douglas- Hamilton, conte di Orkney. Giorgio I apprezzò talmente la musica, che ordinò ai musicisti, sebbene esausti, di ripetere l’esecuzione tre volte. Io da giovane ero capace di rimettere il disco anche dieci volte di seguito, chissà che non sia la reincarnazione di una delle nobildonne presenti!
Però, per consolarmi di tutti i concerti mancati del mondo un modo ce l’ho. Al concerto del 1981 di Fabrizio de Andrè a Sarzana, c’ero. E non vale meno di Woodstock, per me. Mi basta in fondo, per risarcirmi di tutti gli altri.
A.B.
Non ero ancora nato, nel 1981. Faber, il poeta maledetto. Uno degli ultimi intellettuali della musica italiana. Strumentista e paroliere. Sarebbe riduttivo chiamarlo cantautore. Ebbene, Faber resterà uno dei più grandi rimpianti. Quando morì, nel gennaio dell’anno 1999, non ero ancora sedicenne. E a sedici anni difficilmente hai il permesso dei tuoi genitori per andare ad un concerto del genere. Negli anni ho avuto anche la possibilità di recuperare con il figlio. Ma anche in quel paio di date ricorrevano occasioni particolari.
Certo con Cristiano posso ancora recuperare, ma non sarebbe la stessa cosa. Sfogliando nei ricordi, mi vengono in mente i primi veri live. L’esibizione alla festa di paese, rigorosamente gratuita per i cittadini, del gruppo napoletano nato negli anni settanta Il giardino dei semplici, ancora in attività. Il tastierista Andrea Arcella, amico di famiglia, fece salire le mie sorelle e i miei cugini sul palco, per esibirsi in un còrso stonato ma esilarante.
Nutro qualche speranza nei Rolling Stones
Vedevo i miei fratelli più grandi e i loro amici prepararsi di tutto punto e un po’ avrei voluto essere con loro. Allora. Adesso mi sono dovuto ricredere un poco, con tutto il rispetto. Il fatto di essere nato solo nel 1983 mi ha ostacolato tante volte. Gli Smashing Pumpkin, i Nirvana, i Queen. I Pink Floyd ed il loro live The Wall a Berlino. Trecentomila persone e decine di artisti tra i migliori del mondo a calcare quel palcoscenico. Un momento epocale, davvero. Di quelli che per esserci daresti qualsiasi cosa. Chi c’era lo racconterà con entusiasmo e con le lacrime agli occhi, sicuramente. E giustamente. Di quella formazione sono rimasti David Gilmour e Roger Waters che ogni tanto tornano in Italia, dopo Pompei e Verona. Ma il sold out immediato, appena aperta la prevendita, mi scoraggia ogni volta.
Tornando ai giorni nostri. A un certo punto decidi. Quali sono gli artisti che ti piacciono e quelli che avresti evitato tranquillamente. Succede il contrario, talvolta. Allora Lucio Dalla fissava difficilmente date a sud di Roma. Specie negli ultimi anni. Molti cantanti quando vengono consacrati ufficialmente tendo ad essere dei presenzialisti televisivi fuori dal normale. Poi d’improvviso vengono a mancare. Come il grande Pino Daniele, morto tre mesi fa. A dicembre aveva fissato alcune date a Napoli. La sua città, il capoluogo della mia regione, fonte di ispirazione per artisti, filosofi e giuristi. La città del mare e dei castelli. Delle dominazioni stratificate sotto le strade.
Il lavoro s’è messo di traverso, quando manca e quando c’è, riesce a fare danni in egual misura. Sedici e diciassette dicembre 2014 (martedì e mercoledì), ore ventuno e trenta. Il Palapartenope ospitava il tour “Nero a metà”, dall’album che lo ha consacrato in maniera definitiva. In mezzo alla settimana. Impossibile per me esserci. L’influenza del fratello maggiore in alcuni casi incide tantissimo. Grazie a lui sentivo quotidianamente i pezzi di Pino. Alla gita con le scuole medie, comprai la cassetta dell’album Non calpestare i fiori nel deserto.
Prima di lui, nel luglio scorso, il grande George Benson.
Due date in Italia. Una a Milano, l’altra ad Avella, il 17 luglio 2014, a quattro passi da casa mia (e quando dico quattro passi, sono sincero) nell’anfiteatro romano. Due pezzi di storia messi l’uno dentro l’altro. Ecco. Benson era a Milano per lavoro ed io pure. Peccato che le date non coincidessero. Sono vibrazioni che spesso vanno colte al volo. Voglio andarci? Prendo il biglietto. Perso il treno, non se ne fa più niente. Ed ecco che la mente inizia a vagare, a proposito di vibrazioni.
Sarebbe stato fantastico poter assistere a concerti tra gli anni sessanta e settanta. John Coltrane, Jimi Hendrix, Jim Morrison e I Doors. Tim e Jeff Buckley. Tutti morti e con relative cover and tribute band, nate negli anni a seguire. Non è affatto la stessa cosa.
Poi ci sono i Beatles. Nomi leggendari e irripetibili. Tutte occasioni perse per quelli della mia generazione. Nutro qualche speranza nei Rolling Stones, che probabilmente sopravviveranno a me ed ai miei figli e forse anche ai miei nipoti.
Ma non in maniera figurata, in maniera letteraria.
P.V.