L’Aquila distrutta è un calcio in pancia
Non ho mai visto l’Aquila. Non com’era prima. Ho visto l’Aquila distrutta però. No, non sono corsa a curiosare tra le macerie, ci sono stata solo tre anni fa. In realtà dovevo fare un lavoro per il master che frequentavo e speravo di trovare una città in buona parte ricostruita, di poter passeggiare tra le sue vie. Volevo vedere una città come tutte le altre, una città che sapevo essere molto bella, prima.
Arrivo all’Aquila a pomeriggio inoltrato. C’è un certo movimento di auto, negozi aperti, gente per la strada. È tutto tornato normale, penso, anche se alcune case mostrano cicatrici evidenti lungo le facciate, ma del resto questo me l’aspettavo. Procediamo lentamente con l’auto. Una, due, tre curve in salita, una grande piazza alberata. Parcheggiamo lì. Scendiamo dalla macchina e il freddo mi trafigge i pochi centimetri di pelle scoperta. La strada è un po’ in salita e la pancia comincia a pesarmi. Ecco le prime case del centro. Sono palazzine disabitate, graffiate a morte dal terremoto. Le finestre buie delle case sono come orbite vuote che fissano il nulla. Silenzio. Nessun rumore
Mi sembra di sognare, di essere finita in uno di quei film dove le cose all’inizio sono chiare e poi la trama si attorciglia su se stessa e non capisci più nulla di cosa stia accadendo, ma muoiono tutti. Inizio ad avere il fiatone. Intravedo le transenne con su scritto zona rossa. Zona rossa. Mi pulsano le tempie. I militari ci guardano, ma non dicono nulla. Passiamo sotto un ponte completamente puntellato e ho come la sensazione di passare attraverso lo specchio di Alice, solo che dall’altra parte non ci sono stregatti, né conigli e cappellai matti, ci sono invece macerie e un senso di pesantezza e angoscia che mi preme sul petto.
L’aria è frizzante. Calano le prime luci della sera e le case imbragate assumono un’aria spettrale, sinistra. Lungo il corso però c’è un bar aperto. Entro e ordino una cioccolata. Il profumo è inebriante, la consistenza densa, il gusto perfetto. Ci dirigiamo con la pancia calda e rincuorati verso la piazza. Una piazza grande, bianca, con la pavimentazione a crepe evidenti. Ogni crepa è come uno spillone nel cuore. Era bella davvero l’Aquila. Ritorniamo a passeggiare sul corso. Sembra impossibile, eppure c’è tanta gente in giro, seduta fuori dai pochi locali aperti. Si comporta come se nulla fosse accaduto, come se quella non fosse la loro città distrutta, ma loro città e basta. Hanno una dignità che mi fa salire delle lacrime calde. Saranno gli ormoni, penso.
Non ho il coraggio di tirare fuori la reflex. Non ho il coraggio di fotografare le loro ferite come tanti hanno fatto negli anni precedenti, ma devo portare a termine il mio lavoro. Tiro fuori la compatta, mi sembra di essere meno invadente, e inizio a inquadrare gli scorci che mi sembrano più significativi. Ogni scatto mi si imprime nel cervello ed è come un calcio in pancia, la pancia dove sta crescendo il mio bambino. Ora sento davvero freddo. Non riesco quasi ad articolare le dita. Le finestre buie delle case sono come orbite vuote che fissano il nulla. Silenzio. Nessun rumore, nemmeno il vento ha il coraggio di profanare quella dimensione senza tempo del cuore sventrato della città. Trattengo le lacrime, ma solo per un atavico orgoglio calcificato nel mio DNA. Prevalgono i rossi, i gialli e i blu. Le luci dei faretti illuminano senza garbo gli squarci, i punti di sutura e i puntelli. In alcuni palazzi sembra quasi gradevole, ma poi, i buchi su un altro edificio mi fanno ripiombare nella realtà agghiacciante. L’aria sa di calcinacci e umido. Provo a immaginare l’orrore di quel giorno. Cerco di capire cosa si provi nel sentire la terra che trema. Ma non riesco a farmi un’idea.
Andiamo via che è già buio e il vento sembra volerci sospingere fuori dal centro. Basta, avete visto abbastanza, sembra dirci. Saluto l’Aquila mentre scorrono fuori dal finestrino dell’auto i container. Tanti container con le luci accese. Container che ancora oggi, dopo sei anni, sono ancora nello stesso posto.