Gonella. Dell’eterno movimento
Ho fatto un sogno. Era il riaffiorare dal mare di colori, contorni e volti, echi di emozioni. Si scomponevano e si ricomponevano, in oscillazione imperitura, fino ad amalgamarsi in un tutt’uno coeso e frammentario. Fino a sparire come le ombre della notte alle prime luci del mattino.
“In passato mi è capitato spesso di catturare sulla carta un sogno da poter rielaborare attraverso la pittura. Lasciavo sedimentare gli schizzi per vedere a cosa mi avrebbero portato. Ma è stata una fase che è cessata gradualmente”. Con la voce tersa, in un accento del tutto familiare, mescola le parole senza curarsi di fare accostamenti di senso immediato, creando immagini che di senso si caricano quando poi accostate ai suoi quadri.
Giuseppe parla, e io tengo davanti a me il suo In The Same Breath: lo viviseziono, lo analizzo. C’è molto blu, e questo sovrapporsi di braccia e gambe, questo intersecarsi di corpi quasi fossero adagiati su un fondale marino. Dice che il blu tocca corde dell’anima che ti spingono a guardarti dentro, ma con tranquillità. Che il blu non è solo legato alla malinconia, come fu in altre istanze per artisti come ad esempio Picasso. “È un colore giudizioso, dal blu si può sempre cominciare. Nei miei lavori è ricorrente poiché distacca l’osservatore dalla realtà e permette di evocare un naturalismo meno descrittivo ma carico di impatto. Come accade in questo quadro, dove i personaggi sono intenti ad ascoltare il respiro l’uno dell’altro. Immersi in un unico soffio di vita, percepiscono la natura con condivisa e totalizzante intensità e ad essa, insieme, si abbandonano”.
Le sue tele sono grandi, e i colori si stendono su di esse come a reclamare maggior spazio, come a volerne travalicare i confini. Ammette di soffrire per certi versi di horror vacui, di avere la tendenza “tipica della nostra generazione” di riempire di suggestioni, di saturare di codici. Ma più che questo è la voglia di coinvolgere lo spettatore a 360 gradi, di suscitare una reazione del tutto simile allo smarrimento.
“Le voglio fare sempre più grandi, le mie opere. Se avessi qui in studio tutte quelle ad oggi realizzate, sono certo che avrebbero continuato a vivere, ad espandersi e avvicinarsi l’una all’altra, in una grande narrazione senza fine”. Come nel 2012 quando, atterrato a Lipsia dopo il soggiorno newyorkese, nel freddo dell’inverno tedesco realizza un’opera di 9 metri che demarca un momento di cambiamento stilistico nel suo percorso di evoluzione pittorica.
Le si potrebbero definire opere di impatto, che lui ammette essere tali grazie anche all’uso dell’acrilico. “L’acrilico veicola timbri cromatici carichi e puri. Quello che utilizzo ha tempi di asciugatura più lenti, che mi permettono di lavorare su fragranze sottili e sofisticate come ad esempio le velature che caratterizzano la tecnica ad olio”. Vuole che i suoi lavori li si possa osservare sia da lontano che da vicino, in un gioco di forti rapporti tonali e delicate trasparenze che ricorda i mosaici colorati delle vetrate di una cattedrale gotica. Un raffronto non casuale, dato che Giuseppe si forma artisticamente nello studio del padre, maestro vetraio e mosaicista. “A mio padre devo questo: l’avermi insegnato a non lasciarmi intimidire dalle cromie pure, dalle trasparenze, e la saggezza di avermi permesso di percorrere nella libertà e nel rispetto la strada che desideravo intraprendere per realizzarmi, come uomo e come artista”. Tra la miriade di volti indefiniti che popolano le sue opere, il padre sta in un ritratto di grande formato, due metri per uno e mezzo, che porta il titolo di Twin Stare – Sguardo gemello. Il resto, a parte qualche rara eccezione, sono intrecci di fisionomie dai tratti volutamente vaghi di uno, nessuno e centomila identità.
Ma non mancano le descrizioni accurate al punto da sembrare fotografie. Ma forse le istruzioni non esistono, e se esistono sono nascoste in modo da non poter essere trovate. Perché la trasformazione è in realtà l’unica costante della nostra condizione esistenziale, come il nostro destino immutabile è imparare a danzare con le onde
In realtà non sempre. Capita di rado (ma capita) di esser particolarmente sensibili agli stimoli esterni, come quando a una mostra di arte contemporanea l’opera di altri artisti ci seduce fino al punto di provare un profondo struggimento. Inaspettato tanto quanto il batticuore che si scatena quando si è inavvertitamente sfiorati dalla mano della donna che si ama. Scossi, per un attimo si resta inermi, a riprender fiato. Ma è un’immobilità temporanea. Un preludio alla conquista di nuove consapevolezze, come a febbraio le gemme degli alberi presagiscono la primavera.
Giuseppe si perde per un attimo nel suo silenzio denso di immagini, quindi riprende. “La mia è una ricerca totale e totalizzante. La tensione emotiva insita nell’atto creativo si presenta alla mia mente con le sembianze di un intreccio caotico di fili, tra i quali io vado cercando un significato puro e pulsante nonostante le contraddizioni. È da una visione apparentemente incoerente che amo partire. Dove le cose sembrano più difficili da rappresentare io inizio a lavorare”. Lui queste immagini le vuole riscattare. “È come entrare in una stanza disordinata piena di oggetti apparentemente sconnessi tra loro. Il pittore li visualizza, uno a uno li tocca, ci da un nome. Intuisce i vari utilizzi a cui ciascuno di essi si potrebbe piegare, da loro una connotazione che non necessariamente segue la logica dei più”. E nel frattempo le distanze si accorciano, gli spazi si riempiono. Si fanno degli errori da cui si impara e solo allora si cambia stanza, si cambia tela. “È la curiosità insaziabile, l’ossessione per la ricerca che mi fa sopravvivere ad ogni quadro”.
L’ispirazione viene da suggestioni, musiche, paesaggi, frammenti di storia personale (sua e degli altri) che tenta di catturare nei suoi quadri. “La fonte poi la si dimentica. Quel che conta è che lo spettatore senta l’opera, che vi sia una fluida interazione emotiva con essa”. Un risultato non scontato, che dipende molto dalla predisposizione del singolo. Gli chiedo se e in che misura l’artista abbia una responsabilità sociale. “In qualunque modo lo si faccia, dipingere è esprimere un’opinione, è sensibilizzare. L’intento a volte non è immediato e si manifesta solo quando un progetto giunge a maturazione. Ma è certo che l’arte abbia una connotazione sociale”. Come in Mente locale, in cui tutto – dai verdi acidi alle cromie contrastanti, ai fasci di luce gialla come scie di api geneticamente modificate – è teso a ricreare un’atmosfera post atomica dai tratti per nulla rassicuranti, in cui si è spinti a chiedersi quali vie di fuga ci possano mai essere, come e dove si possa mai trovare sostentamento. Oppure come in Gezi Park, dedicata alle proteste di Piazza Taksim, in cui la cupidigia umana tenta di strappare le viscere ad un albero, ignara del fatto che la natura stessa si sta prendendo la propria rivincita facendo spuntare altrove nuovi, verdi germogli. Sullo sfondo una Istanbul incerta, che affoga nelle tinte calde dell’orizzonte.
Di ritorno dal Rijks Museum di Amsterdam dove ha visitato una mostra sul tardo Rembrandt, è già di partenza per Madrid dove conta di spendere la maggior parte del tempo al Prado. Ma, ci tiene a specificare “Non sono un viaggiatore nel senso tradizionale del termine, non sento un’urgenza inquieta di partire. Mi ritengo solo fortunato perché attraverso le mostre ed i progetti che mi hanno coinvolto ho potuto visitare e conoscere altre città”. È stato così per Venezia, New York e poi Lipsia, Amburgo, Berlino. La Germania, Lipsia in particolare, gli ha permesso di interagire con altri pittori figurativi in un contesto stimolante e internazionale. Come la Berlino che lo ospita attualmente.
Gli chiedo cosa abbia in serbo per lui il futuro e subito menziona progetti che lo coinvolgeranno sia in Italia che all’estero. Al momento sta lavorando a un’opera per una mostra che si terrà a Berlino. Una rivisitazione su tela del Baal, la pièce teatrale di Bertold Brecht che fu adattata cinematograficamente dal regista tedesco Voker Schlöndorff alla fine degli anni Sessanta. “Il Baal è la storia di perdizione di un poeta alcolizzato, spinto dalla sua stessa dissolutezza all’emarginazione sociale e ad una morte misera e solitaria. Investigare le zone di luce, ma soprattutto quelle d’ombra, di un uomo che vive in balia del suo genio è una sfida da non sottovalutare”.
E sempre di sfida si tratta, ossia di quel fuoco che lo spinge incessantemente a creare. E che mai si estingue, perché all’estinguersi contemporaneamente si rigenera. “Se avessi trovato le istruzioni per l’uso del mio essere artista mi sarei già fermato, la mia storia di pittore sarebbe finita prima ancora di essere iniziata”. Ma forse le istruzioni non esistono, e se esistono sono nascoste in modo da non poter essere trovate. Perché la trasformazione è in realtà l’unica costante della nostra condizione esistenziale, come il nostro destino immutabile è imparare a danzare con le onde, diventando un tutt’uno con il loro eterno movimento.
Nato nel 1984 a Motta di Livenza (Treviso), attualmente Giuseppe Gonella vive e lavora a Berlino.