Gattina in maschera
Credevo che una breve incursione in chat mi avrebbe tolto la curiosità che avevo da tempo. Se noi maschietti ci tocchiamo il pisello mille volte al giorno, stimolati da pensieri lussuriosi senza fine, qualora volessimo lasciarci andare alle nostre fantasie, ci sarebbero donne in grado di corrispondere ai nostri pensieri più lascivi? Dopo aver scartato qua e la, dribblato autentiche malate di mente, conobbi Gattina, tipico nickname da internauta in calore.
Mi aveva incuriosito soprattutto per l’eleganza con cui immediatamente mi raccontò della sua micia, nera come la pece, profonda come un canyon, fresca come una cascata. Ho un punto debole, fotto prima di tutto con il cervello e poi con il cazzo. La sapienza con cui utilizzava i congiuntivi, gli argomenti che mi spiattellava sullo schermo, mi catturarono più di un culo messo a pecora. Prima che me ne rendessi conto, iniziai a cercarla con urgenza in rete, sempre più spesso.
Mi aveva incuriosito soprattutto per l’eleganza con cui immediatamente mi raccontò della sua micia, nera come la pece, profonda come un canyon, fresca come una cascata
La sera di sabato di un tredici luglio, alle 21 ero al cancello. Con un sms avevo ricevuto il codice per aprirlo. Alberi antichi e una casa sconosciuta in fondo al giardino, a qualche centinaio di metri, mi confermavano che ero davvero li, in un luogo estraneo ma desiderabilissimo. La ghiaia crepitava sotto i pneumatici dell’auto, infastidita evidentemente da un via vai non usuale. Sullo slargo vidi altre macchine parcheggiate, mi affiancai all’ultima a sinistra e spensi il motore. Una ragazza in cima alla scale, vestita con una divisa quasi funerea, mi diede il benvenuto con lo sguardo porgendomi una mascherina nera. Mi indicò il passaggio verso il giardino. Ad ogni passo la musica diventava sempre più avvertibile. Il prato era curatissimo. Nessuna luce artificiale. Solo fiaccole e candele, sparse ovunque. Un enorme tavolo offriva ogni ben di dio. La piscina era già occupata da tre coppie. L’uomo sotto e la donna sulle spalle nell’antico gioco di abbattere il cavaliere, in questo caso l’amazzone, visto che i seni erano già al vento. Mi venne incontro una matrona con un caftano rosso rubino, capelli dello stesso colore. Benvenuto, scrivi il tuo nick su questo cartellino e dimenticati chi eri fuori dal cancello. Divertiti e vivi adesso. Andò via ridendo come se avesse assistito al migliore degli spettacoli comici. Adesso avevo capito come avrei riconosciuto Gattina dietro la maschera. Partii in perlustrazione. I ragazzi in piscina si baciavano liberamente incrociando baci omo, saffici ed etero. Una vecchia baldracca trans, di bianco stivalata fino all’inguine e con una guepiere in tinta, al mio passaggio si girò su un fianco puntando il dito sul suo buchetto. Altro che buchetto mia cara. Quello ormai è il Frejus, hai solo tolto il casello per il pedaggio adesso.
Credevo mi avrebbe assalito l’ansia, invece c’era solo adrenalina in circolo. Lo spettacolo che avevo intorno a me, perché di una rappresentazione si trattava, mi incuriosiva e mi eccitava. Una cavallerizza cinquantenne, con tanto di berretto, imboccava il suo puledro trentenne di un multicolore risotto di mare. Damine settecentesche prive di gonna, si inseguivano fra le siepi, una specie di Camillo Benso portava al guinzaglio la sua Catwoman, ombretti glitterati e parrucche inverosimili ornavano quelli che probabilmente erano padri di famiglia. Insomma, un film d’autore. Avevo già notato in fondo al vialetto una specie di altare. Un letto a baldacchino forse, una sorta di gazebo. Procedevo con calma, non volevo perdermi nulla di quel circo per me così nuovo quanto affascinante.
Alla fine arrivai ai piedi del tempio. Una tettoia di legno con tende semitrasparenti aperte. Al centro un enorme letto a due piazze in pelle bianca, ai lati del quale due antichi romani fungevano da guardie del corpo. Al centro lei, Gattina, l’unica con la maschera dorata. L’avrei riconosciuta in ogni caso, per quanto non portasse il badge con il nick. Era la regina della festa, forse la padrona di casa. Tunica romana strizzata sotto alle enormi tette siliconate, capezzoli turgidi, pelle tesa. Un serpente d’oro le avvolgeva la caviglia. Trucco nero, labbra viola. Gambe abbronzate e lucide. Capelli sciolti e ondulati trattenuti dai lacci della maschera. Mi riconobbe subito, vestito com’ero di semplici pantaloni scuri e camicia bianca. Rise, e mi invitò a salire. I centurioni ebbero l’ordine di chiudere le tende. Mi disse solo un ciao. Inginocchiata davanti a me, con premura mi tolse le scarpe lasciandomi scalzo, bottone dopo bottone mi liberò della camicia. Mi baciò di striscio per fiondarsi sui miei capezzoli. Mi morse fino a farmi male, ma neppure un lamento uscì dalla mia bocca. Avevo già i sensi alterati e la percezione del dolore si trasformava in sensazione di attenzione, di desiderio nei miei confronti.
Addentò le mie dita succhiandole come un idrovora, mentre con una mano mi teneva stretto il collo. Mi lasciò solo quando capì che non potevo oltre. Volevo afferrarla e per caso, in un attimo di lotta, le graffai i capezzoli con la barba del mento. Emise un miagolio acuto che quasi mi spaventò, credevo di averle fatto male, ma il sorriso che aveva stampato in faccia mi rassicurò sul reale effetto di quella fortunata fottutissima casualità. Le afferrai le braccia mettendola sotto. La tunica romana era ormai un ricordo. Mi tuffai con la testa fra le tette, leccavo e graffiavo, mi fermai a lungo sui suoi enormi chiodi, alternando lingua e barba. Tremava, si divincolava, ma non c’era forza in questa ribellione, semmai un invito ad esplorare altre latitudini. Scesi fino al ventre, al di sotto dell’ombelico sviai volutamente verso le gambe, mi dedicai a graffiare e leccare l’incavo posteriore del ginocchio. A questo punto smise di miagolare per iniziare a ruggire. Nella penombra vedevo agitarsi gli antichi romani al di la della tenda, ma evidentemente le direttive prevedevano di non avvicinarsi qualunque cosa avessero visto o udito. Con un abbraccio bloccai le due caviglie ed iniziai una minuziosa leccata delle palme per poi divorare con lingua e denti le dita dei piedi. Il minuscolo perizoma era ormai fradicio, ridotto ad un cencio semi affondato nella micia, nera come la pece, profonda come un canyon, fresca come una cascata. Mentre mi liberavo dei pantaloni che ancora indossavo mi prese al collo con l’avambraccio spingendomi su quella specie di letto. Mi chiese di rimanere fermo.
Con un panno morbido, di una morbidezza mai conosciuta, prese ad ungermi con dell’olio profumato. Non dimenticherò mai quell’aroma. Tagliente, puntuto, penetrante ma dolce allo stesso tempo. Mi sfilò gli slip quasi innervosita. Indugiò tra le mia natiche, succhiò avidamente le palle, mi girai affinché soddisfacesse una mia urgenza, mi masturbò stringendomi il cazzo nel panno intriso d’olio fino a quando dovetti iniziare io a ruggire. Ingoiò ogni centimetro, e fu una vera penetrazione orale. Lo infilò fino alla trachea rimanendo in apnea. Ero stordito. Mi muovevo in su lentamente, in estasi, avrei voluto entrarci con tutto il resto del corpo in quella gola. Si ritrasse di colpo, in cerca di aria. Le infilai la lingua in bocca come mai avevo fatto prima. Stritolavo le tette, arpionavo i glutei. Mi sedetti, la presi in braccio e la feci scendere su di me. Entrai nella sua figa come se fossimo stati fatti da un sarto esperto. L’una accoglieva la forma dell’altro. Esplosi liberandomi con un grido rauco, un misto fra un pianto e una risata. Rimanemmo abbracciati, fermi, ansimanti, esausti, appagati, estranei.
Amore? Sei già in cucina? Fai il caffè?
Siiiii!
Come mai sveglia così presto?
Per forza, non hai fatto altro che lamentarti nel sonno!
Scusa, forse un incubo!
Forse, intanto il tuo cellulare continuava a trillare. Hai ricevuto una marea di notifiche. Rispondi e digli che di domenica mattina non si rompe con i messaggi! Hai whatsapp pieno!
Notifiche? Sogno? Oddio! Hai visto per caso chi mi ha scritto???
Noooo. Cazzi tuoi.
Pfui!!!!!!!!!!!!!!