Cinture di insicurezza
Prendiamoci un momento per parlare di cose serie, giusto il tempo di un caffè e una sigaretta, come se fossimo insieme al bar (ebbene, anche al bar si possono fare discorsi seri). Non molto tempo fa ero a tavola con i miei genitori. Pranziamo e ceniamo sempre insieme e da sempre – Dio solo sa quanto lo detesti – vediamo il telegiornale sotto costrizione di mio padre. Non venite a dirmi che è importante tenersi informati, o mi costringereste a farvi notare che certi telegiornali – tra cui quelli del servizio pubblico – fanno tutto tranne che informare le persone. Aperta e chiusa parentesi.
“Abbiamo finito col bollettino di guerra?”
Quest’aspetto è stato sottovalutato, e con questo non intendo affatto dire che “è sempre successo quindi dobbiamo farcene una ragione”. Anzi sì, dobbiamo farcene una ragione. Senza che questo voglia dire starsene con le mani in mano però. La paura ormai dilaga tra le persone, è evidente, tutti si sentono come se vivessero nel medioevo, come se il vicino di casa potesse ammazzarli da un momento all’altro. Oscillano continuamente tra il ragionevole timore e la psicosi paranoide. Di certo questa consapevolezza del male che ci viene servita ogni giorno a tavola insieme al pane ha avuto i suoi effetti sul quieto vivere delle persone.
Non mi sorprende che chiedano più sicurezza, più polizia, più controlli, ma forse sarebbero sorpresi loro nel sentirmi dire che dubito che tutte queste cose possano mai risolvere alcunché. Ironica – in modo tragico – la sorte: dopo l’11 settembre la sicurezza negli aeroporti è aumentata a dismisura, negli USA raggiunge livelli estremi, eppure pochi giorni fa un copilota si è chiuso in cabina e ha portato l’aereo su cui era a bordo a schiantarsi sulle montagne uccidendo centocinquanta persone. Mentre aumenta il timore e l’odio verso gli immigrati vediamo che gli attentatori della recente strage in Francia erano anch’essi francesi.
Pare che il male trovi sempre nuovi modi e nuove forme per esprimersi, ma ci metto dell’altro: a me pare che sia più violento là dove le cose – la società – funzionano meglio. Prendete gli attentati di Oslo: un solo uomo, Anders Behring Breivik, fa fuori da solo 77 persone e ne ferisce 319. Prendete le stragi all’interno delle scuole negli Usa, che per inciso succedono solo negli Usa, dove ai bambini al primo compleanno regalano fucili veri invece che giocattolo. Prendete il caso Fritzl, l’uomo che in Austria tenne segregata la figlia in un bunker per ventiquattro interminabili anni, abusandola sessualmente e avendo con lei sette figli.
Norvegia, Usa, Austria, e niente del genere che sia mai avvenuto, che io ricordi, in Spagna, Italia, Grecia, Portogallo. Chiaramente questo di per sé non dimostra niente, ma io non cerco delle prove, solo spunti di riflessione. È come se una certa quota di follia presente nelle persone, non avendo modo di specchiarsi e riconoscersi in delle società così “ordinate”, si ritorca verso l’interno e diventi maggiormente pressante e grave. Come se lì dove è più facile per tutti avere la possibilità di vivere una vita normale ci si sentisse quasi costretti, di conseguenza, a sentirsi normali, creando così ancora più dissonanza tra il proprio modo di sentire e il modo in cui gli altri si aspettano che ci si debba sentire.
Per questo, ahimè, non basterà tutta la polizia di questo mondo, né le leggi più severe: per questo tipo di cose bisogna avere il coraggio di guardarsi dentro e di guardare dentro gli altri, senza avere paura di ciò che troveremo. Perché quello che troveremo sarà senza dubbio spaventoso, ma ce l’abbiamo dentro tutti, e se in un modo o nell’altro quasi tutti riusciamo a conviverci restando umani, allora possiamo aiutare anche gli altri a farlo.