Duende
Questo post, che fu pubblicato sul nostro magazine da Anna Bertini per commemorare la morte di Antonio Tabucchi due anni fa, è diventato il prologo del libro di racconti “Duende” in prossima uscita a firma dell’autrice per i tipi di Fusibilialibri.
Di un incontro con Antonio Tabucchi avvenuto nel Gennaio 1999 in merito a una sua partecipazione nel ruolo de “Il Duende” in una produzione da me curata di “Maria de Buenos Aires”, opera-tango di Astor Piazzolla su testo di Horacio Ferrer.
Dovevi essere il Duende, dovevi essere tu, chi poteva altrimenti narrare le ombre notturne della vita e svelarne un contenuto di bellezza e segreto con quel ritmo nostalgico e lieve, lo stesso che ha il tuo scrivere. Appena ricevuto quell’incarico, lo avevo saputo.
Ci incontrammo in Borgo Pinti, a casa tua. Era il pomeriggio di una domenica. Firenze era soporosa, impegnata nel pranzo, e tu eri solo in quella abitazione che frequentavi forse più per i doveri del mestiere, che per piacere o per scrivere. Quando eri in Italia ti trattenevi soprattutto a Vecchiano, per il resto eri là dove sei adesso per sempre, in quella terra che ti aveva scelto. Davanti agli oceani, nella saudade di uomini meno clamorosi di noi nell’essere grandi oppure piccoli. Di loro avevi imparato a narrare con toni che i portoghesi riconoscevano propri. Ora riposi accanto alla valigia piena di gente di Fernando Pessoa, nella Lisbona che ho conosciuto attraverso i vostri schizzi di parole, usati come itinerari. Ti hanno preso in eredità, una preziosa eredità di riconoscenza che la tua patria non ha avuto.
I libri riempivano anche il caminetto. Tu preparasti un caffè con la moka, e me lo portasti su un vassoio di quelli fiorentini tradizionali, con il giglio rosso in mezzo alle volute dorate, che niente aveva a che legare con le decorazioni scarne dell’appartamento.
Tante volte ti avevo scritto, e mi avevi risposto. Celata nella carta da lettere, avevo il coraggio di rapportarmi a te, ma sederti di fronte era un’esperienza che ammutoliva. Non riuscivo a dirti la mia ammirazione, quanto mi eri stato necessario, come avessi trovato nei tuoi scritti tante forze, tante visioni che avevano messo ali al mio passo nella vita, e alla voglia di usare le parole. Avrei voluto dirtelo e dirlo bene, ma non possedevo misura e tutto si annodava. Non mi era possibile. Ero contenta di avere una missione, di riuscire a portarti quella, come un testimone. Nell’offrirti quel ruolo, stava ciò che dovevo dirti. Tu l’avevi capito, ero sicura, e il tuo accettarlo me lo confermava. Saresti stato il mio Duende. Entrambi avevamo pudore di quelle scelte dettate dai tempi. Tu quella di renderti visibile, di apparire al tuo pubblico, cimentarti su un palco. Consigliato forse da qualcuno cercavi di adattarti, non proprio di buon grado e con poca convinzione.
Attendevi l’occasione propizia e io sembravo offrirtela. La stoffa ti piaceva, potevi immaginarti di interpretare il Duende, declamando il testo originale in lunfardo, il dialetto di Baires, e qualche frase tradotta in italiano per favorirne la comprensione da parte degli spettatori.
Io non ti nascondevo le condizioni che mi erano state poste. Avrebbero prodotto il mio progetto, la prima rappresentazione europea di Maria de Buenos Aires, operita-tango di Piazzola su un testo del grande poeta uruguayano Horacio Ferrer.
Dovevo però presentare nomi di richiamo, degni dei grandi teatri dove sarebbe andata in scena, dovevo essere in grado di attrarre il grande pubblico, di pensare in modo commerciale, non solo qualitativo.
Nessuno di noi due sembrava essere geneticamente programmato per questo tipo di preoccupazione. Bevendo quel caffè ce lo confessavamo timidi. Pure nell’essere entrambi stranieri sul territorio della ricerca di successo, c’era la vera complicità. A garanzia di quel patto ponevamo altri sigilli. Il primo era la passione per Borges, poi c’erano molti tuoi racconti, fondati sul rovescio e sull’equivoco, sulla fuga e il mistero, come il nome di un capitolo della Maria. Già in quelle parole c’era molto di te.
Il Duende, lo spirito rivelatore, e il poeta, Horacio. Sì, ti ci sentivi. E poi c’era quel contenuto così portegno, e nello stesso tempo, quella musica, il tango nuevo, che si allontanava dalla tradizione sudamericana pura per prendere le influenze del jazz e del e del nostro vecchio continente. In quella piega tra due pagine di mondo, sapevi di poterti inserire. Maria de Buenos Aires, la personificazione di una città, una città moderna e nevrotica, infernale e inebriante dove il male e il bene si fondono. Maria prostituta e Maria redentrice, madre figlia e spirito, trinità femminile di una religione troppo materialista.
Maria nata un giorno che Dio era ubriaco, per generare un salvatore femmina e farle ripercorrere l’inferno prima di salvarsi. Questo era il nostro progetto comune.
Non ne parlammo granché. Alla fine, quando un filo di confidenza riuscì a dipanarsi dalla nostra conversazione, fu di tutt’altro che trattammo. Dei personaggi e i luoghi dei tuoi racconti: una piazza pisana riempita di voci inaspettate, che avevo riconosciuto. Il gatto Belafonte; la palma Giosefine in un racconto che parlava di tanghi e di Mar del Plata, ma anche di Casablanca e di una casa cantoniera; Spino e il guitto che piange per Ecuba; la Bugatti Royale e la spiaggia di Biarritz. Ne porto molti dentro me, sono come una piccola carta stradale dell’animo. Riuscii persino a confessarti che scrivevo, prima di congedarmi. Ma ti avrei mandato poche frasi senza costrutto solo molto tempo dopo, sapendole ancora bozzoli privi di forma, involuti.
“Se un giorno mai imparerò a scrivere, non importa quando, Lei sarà stato il maestro. E se non prenderò mai la misura, vuol dire che non ci sapevo fare” ti dissi congedandomi. Non ammettesti di poter essere maestro di scrittura per qualcuno, non era una capacità che contemplavi, schivo come un vero toscano, schivo come un vero maestro. Eppure avevi capito bene cosa intendevo. Credo che pochi altri momenti della mia vita al di fuori dalle strette cerchie familiari siano stati più importanti di quell’incontro. Da lì presi l’abitudine di chiamarlo Duende, Antonio Tabucchi.
La produzione di Maria de Buenos Aires, nonostante il grande impegno profuso, non si fece. Fummo sicuramente i primi a chiedere i diritti agli eredi Piazzola per la ripresa europea, ma i tempi di attesa per la concessione di questi si allungarono inspiegabilmente. Alla fine ci arrivò una lettera. Ci informavano che un’artista molto legata ad Astor Piazzola aveva espresso, sebbene successivamente a noi, la volontà già maturata da tempo di proporre l’Operita in Europa, e che era sembrato quindi naturale concedere a lei i diritti. Avremmo potuto contattarla, volendo, per una cooperazione. L’artista realizzò il progetto con i suoi collaboratori abituali.
Il mio Duende mi mandò un fax dall’Università di Siena in risposta alla comunicazione sul fallimento del progetto. Non dovevo dispiacermi per lui, piuttosto era lui a rammaricarsi per me. Un’altra occasione l’avremmo trovata per un progetto comune. Continuai a scrivergli della lettura dei suoi libri, delle cose che mi avevano colpito, insegnato qualcosa, o anche lasciato perplessa. Ad un certo punto i miei messaggi cominciarono a rimanere senza risposta. Così, decisi di non importunarlo più a lungo. Mi arrivarono voci che fosse malato. In una domenica pomeriggio del 2012, a Monaco di Baviera, mentre passeggiavo col mio cane, un amico mi informò che Antonio Tabucchi era morto a Lisbona. Era appena sbocciata la primavera.
I racconti a cui mi riferisco qui sono tratti da: Il gioco del Rovescio, Piccoli Equivoci Senza Importanza, Il filo dell’Orizzonte, di A. Tabucchi.