La mia malattia
La mia malattia è diventata cronica. Conviviamo da qualche anno. Mi sveglio ogni mattina con una lama conficcata nel fianco. Non è un problema. So bene cosa sia e quando una cosa la conosci non ti fa più paura, l’affronti, la soppesi, la studi, la accetti, qualche volta ti rassegni. Ho quasi timore, quando mi sveglio, di non sentirne ancora la presenza. Un lamento perpetuo e silenzioso mi accompagna in ogni mia azione. Quel bruciore che mi trapassa dal ventre alla schiena, mi consola, mi dice che se soffro sono vivo. Ed io vivo desidero rimanere, vivo e sofferente. Un tributo a me stesso, uno stimolo alla pazienza, una conferma che devo, voglio sentire che ancora esisti nella mia testa. E se sarà un coltello piantato nelle carni a ricordarmelo, che affondi ancora di più, perdio! Di te questo mi rimane, di te questo è il residuo, di te questa è la testimonianza. La tua mano ha mosso l’arma lacerando la mia pelle e da quella ferita è fuoriuscita l’anima. L’hai presa, l’hai arrotolata e attendo il giorno in cui vorrai restituirmela. Quel giorno guarirò e se non vorrai, preferisco rimanere malato.
Sanguino, eppure le mie energie non vengono meno, né muoio
Non alzarti, non farmi vedere una tenda che si scosta alla finestra, mi uccideresti e non posso finire adesso. Significherebbe che hai dubbi su chi sia il pazzo che canta per strada. Non puoi sbagliare, quell’uomo sono io. Hai dimenticato forse la mia voce? Non farmi questo, non farmi pensare che il ricordo di me ti sta lasciando, non farmi pensare che solo la curiosità ti spinge ad alzarti dal letto. Lasciami nell’ignoranza, lasciami una speranza. Lascia che io possa immaginare ciò che provi. Lasciami questa ricompensa, almeno questa. La possibilità di pensare a modo mio quello che farai o che vorrei tu facessi ascoltandomi.
Di quale amore sarei degno se non fossi in grado di sopportarne le atrocità? Come dimostrerei di amarti se mi piegassi alla vigliaccheria della morte?
Il pensiero mi schianta, ma solo il dolore ora mi è amico
Il mio canto è un pianto, e se grido troppo forte non aver paura. Anche se lui si sveglia, questa serenata non ha una dedica, non ha un nome, amore mio. Sono solo un pazzo che grida per strada. Rassicuralo, di pazzi ce ne sono tanti, mettimi nella gabbia insieme agli altri, isolami, rendimi anonimo, uno qualunque, uno uscito di senno. Mi immolo volentieri per renderti serena. Preferisco essere un cencio di strada, erba da marciapiedi . Sei la mia ragione di vita. Ogni sacrificio mi rende un uomo migliore. Digli che colui che canta per strada sarà di sicuro un uomo finito, un relitto, un rifiuto umano, digli che si tratta di qualcuno che sta morendo di gelosia, di un povero cristo che piange per un tradimento, per la più feroce delle maledizioni, uno che non ha più nulla per cui vivere, se non per la ragione stessa del dolore per cui canta.
Liberamente tratto da “Voce e notte”. Testo di Edoardo Nicolardi, musica di Ernesto De Curtis, Napoli 1903